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Il videoartista Zombie si fa Arlecchino

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Giacomo Verde, affermato videoartista e performer, è tra i fondatori della nostra rivista. È noto, o almeno così lo chiamiamo noi nonostante le sue reiterate minacce, come guru della videoarte, benché egli affermi di sentirsi assai più il bischero della videoarte. Lo intervistiamo perché, nel contribuire all’ideazione della testata, ha più volte posto questioni importanti, stringenti, che meritano la condivisione coi lettori e che contibuiscono, al pari del Manifesto e del Prologo, a una pur sommaria definizione di poetica per lo sguardo di Arlecchino. Conduce workshop e laboratori e, al momento, porta in giro la sua performance Artist=Zombie (24 gennaio a Spam!, il 20 febbraio a Cascina).

La tua esperienza artistica nasce con il teatro di strada negli anni Settanta, poi ti avvicini alla videoarte e la inserisci nelle tue performance. Cosa ti ha portato al tecnoteatro?
Alla normale percezione del mondo, a partire dagli anni Ottanta, si è aggiunta una percezione fatta di realtà aumentata, che è quella elettronica e digitale: mi è sembrato interessante indagare lo scarto tra la percezione del mondo propria del tuo corpo e quella mediata dagli schermi. Credo sia uno dei nodi centrali della nostra cultura contemporanea e, occupandomi di teatro (ovvero di percezione del mondo), mi è sembrato naturale occuparmene, arrivando, quindi, alla videoarte. Di solito, i teatranti non capiscono bene questo passaggio: vivono in un’idea di naturalezza del corpo teatrale e dello spazio scenico come antitesi all’artificio tecnologico.  Come se natura e artificio fossero cose separate nella vita. Ma è una bischerata, non è vero nulla.

Come hai scoperto il video?
Una mia amica, Luciana Sacchetti, mi portò a una mostra di videoarte a Ferrara, e poi vidi uno spettacolo dei Magazzini Criminali, che utilizzavano il video in scena. Per me la televisione, da quando ero bambino, è sempre stata un punto di riferimento, e vedere usare lo schermo video in un modo diverso da quello della normale televisione mi ha aperto la strada verso nuovi mondi espressivi. E ho capito che, con il video, potevo fare cose diverse dalla televisione.

Una strada che non doveva essere facile da percorrere: fare video negli anni Ottanta era costoso e tecnicamente difficile…
Ho iniziato noleggiando un VHS e provando a fare riprese e montaggio in casa con materiali amatoriali. Per il mio primo spettacolo con dei video noleggiai uno studio di montaggio: ci ho rimesso un sacco di soldi e l’esito fu disastroso.

Oggi è molto più facile, chiunque ha un cellulare con delle discrete capacità di ripresa. E nella nostra civiltà postmoderna, amante del frammento, il video ha trovato una sua centralità. È quello che ti aspettavi, e magari auspicavi, quando ti sei avvicinato alla videoarte?
Sì e no. Certamente, il video è centrale, ma ne viene fatto sempre un utilizzo distorto. A livello ufficiale, il video è ancora propaganda, ma, anche a livello sperimentale, vengono sfrutatti sempre il valore e l’estetica propagandistica. Sono rari i casi in cui il video viene utilizzato in maniera altra. Si confonde sempre video e televisone. In teatro viene usato soprattutto per dare più potenza allo spettacolo, per farlo più moderno. Mentre si può utilizzare in maniera molto più creativa e integrata alla drammaturgia o alla scena. Anche su YouTube, difficilmente si trovano cose altre, che non siano lo scimmiottamento di formati televisivi: da una parte, c’è l’esposizione della tecnologia – giocando a chi ce l’ha più grosso – e dall’altra, c’è chi cerca di innovare, ma sempre all’interno di schemi assodati.
Però sono contento: più gente usa il video e meglio è, perché solo utilizzandolo si può capire come funziona e, dopo aver copiato l’esistente, provare a fare altro. Sono un po’ deluso, perché la maggioranza dei modelli che vengono proposti sono sempre gli stessi. Ma siamo solo all’inizio di una fase di alfabetizzazione.

E quindi oggi chi è il videoartista?
Tutti sono videoartisti. O, meglio: tutti possono esserlo. Dipende dal come fai il video, dal per chi lo fai e da quello che rischi. Se lo utilizzi per far vedere quanto sei ganzo, o per farlo vedere ai tuoi amici, non c’è niente di male. Ma diventa interessante solo quando provi a forzare lo strumento, sia nel linguaggio sia nelle modalità.

Quindi è la premessa, non tanto il prodotto finale, a definire l’arte.
Sì, anche se per me non esiste l’arte, ma esistono le arti: c’è l’arte tradizionale che fa i filmini e c’è l’arte sperimentale che fa le cose strane. Dipende dai fruitori, da cosa si aspettano dall’arte e dal rapporto tra arte e mondo.

ARTIST=ZOMBIE, Giacomo Verde (2013)Perché gli artisti sono zombie?
Perché la figura dell’artista, così come ci viene ancora insegnata e propagandata, è una figura morta che non esiste più: non ha più la funzione che aveva una volta – se mai l’ha avuta – di rapporto con la società. Oggi, invece, il lavoro artistico vive in uno spazio quasi separato dalla società, e serve a far vivere gli artisti, più che a far crescere la società. È una sorta di zona franca in cui gli spostati, i disadattati e i romantici del mondo possono trovare una valvola di sfogo e credersi importanti e utili al mondo, quando in realtà sono importanti e utili solo a sé stessi e all’intrattenimento. Quindi sono zombie. Inoltre, viviamo in un contesto sociale dove essere creativi è diventato un obbligo, per essere presenti su internet ed essere sfruttati nell’industria della comunicazione digitale. Ma è una creatività che non deve mettere in crisi i rapporti di potere e le convenzioni, proprio come fanno i pubblicitari. Si fa passare per artistica qualsiasi cosa ganza o stravagante. E così si diventa zombie.

Quindi a cosa serve il teatro secondo te?
A cosa servirebbe, semmai: una volta serviva a fare comunità per riconoscersi nello spazio-tempo del teatro. Purtroppo adesso succede raramente, perché viviamo in un contesto in cui le culture sono molte e frammentate. Oggi la modalità dominante per mettere insieme una comunità è quella della rock star, che, in quanto simbolo forte, permette ai fans di riconoscersi in quanto fan.
Questo succede anche nel teatro: non è più importante il messaggio, ma il personaggio teatrale che in quel momento si rappresenta, utilizzando la scatola teatrale per diventare simbolo. Rientra in un sistema che crea continuamente dei personaggi di riferimento, più facili da comunicare attraverso i media. Il teatro, oggi – anche quello sperimentale e di ricerca – tende sempre a creare personaggi. Dal mito di Carmelo Bene in poi: una palla tremenda.

Quindi cosa cerchi in uno spettacolo, da spettatore e da artista, se le due cose si possono separare?
Da spettatore, mi aspetto che lo spettacolo mi rappresenti e che mi sorprenda. Questa dovrebbe essere la sua funzione: parte da un livello di condivisione per poi aprire una porta verso un altro discorso, verso un altro punto di vista. Da artista, mi aspetto che questa cosa venga fatta con onestà, non con furbizia: voglio che ci sia dalla parte dell’artista un mettersi in gioco onestamente di fronte al pubblico. Quindi rischiando di non fare comunità e rischiando la brutta figura.

C’è uno spettacolo che da spettatore porterai sempre con te?
Ce ne sono due. Il primo è Sette Meditazioni sul Sadomasochismo Politico del Living Theatre, che mi ha fatto cambiare punto di vista sul teatro. Era un lavoro scarnissimo – non aveva scenografia, gli attori erano in mezzo al pubblico, seduto per terra – che non si proccupava di fare spettacolo, ma di comunicare qualcosa di urgente. Era una comunità anarchica che voleva condividere la propria visione del mondo e della situazione politica. Per me, fu importante vedere delle persone che usavano il teatro, non che facevano teatro: non si preoccupavano di fare lo spettacolo bello, ma di dire qualcosa in cui credevano, in maniera più pulita e più forte possibile.
ll secondo l’ho visto sempre in quegli anni: La leggenda del cavallo bianco del Bread and Puppets. Uno spettacolo completamente diverso: era fatto di pupazzi mossi a vista, che raccontavano una fiaba semplicissima, molto simbolica. Era realizzato con onestà scenica, non aveva pretese di farti credere chissà cosa: era molto semplice e molto bello. Facevano teatro, ma giocando a fare teatro.

Quindi per te il ruolo del teatro, più che emozionare e suggestionare, è quello di comunicare?
Sì, certo: l’emozione e la suggestione devono essere finalizzate alla comunicazione. C’è sempre un contenuto, anche se uno fa finta di no. A volte si dice: «Il nostro spettacolo non vuol dire nulla, tocca allo spettatore immaginare quello che vuole». Ma non è vero, è comunque un contenuto.

Per te cosa significa essere Arlecchino?
Significa, soprattutto, essere irriverente, ma cercando di riconoscere l’esigenza della propria fame. Sono due poli con cui bisogna giocare: vivere la massima libertà, sapendo che, a un certo punto, qualcuno ti chiuderà la strada, e tu devi saper giocare con questa chiusura.

Da artista, non ti imbarazza commentare il lavoro dei colleghi?
No: lo facciamo continuamente e io ho sempre detto le cose in modo chiaro. Semmai, mi potrebbe imbarazzare perché questa cosa ora non viene più fatta, per non farsi nemico nessuno. Ma io di nemici già ne ho: uno più, uno in meno… Su lo sguardo di Arlecchino mi sembra anche più giusto: è un esporsi apertamente, laddove i commenti si sussurrano a cena, a pranzo, all’aperitivo… Di nascosto, insomma.

Sei nato a Napoli, poi hai vissuto a Treviso e sei finito a Lucca: cosa ne pensi del nostro panorama teatrale?
Mi sembra che la Toscana abbia le stesse malattie del sistema italiano, addirittura più accentuate: i teatri sono gestiti dalla politica e, chi li governa, anche se ha meriti artistici, è nominato per l’appoggio alle campagne elettorali dei sindaci.
Ci sarebbero tanti artisti locali con qualcosa da dire, ma non vengono mai coinvolti seriamente. Non si danno spazi, né si investe nel far crescere una cultura teatrale e artistica, perché il potere politico ha paura degli artisti che, se sono liberi, raccontano le cose come stanno.

Stai lavorando a qualche nuovo video?
In questi ultimi anni, non faccio quasi più videoarte, preferisco la video-performance. Non mi interessano più i video da mandare nei festival, preferisco fare video su commissione. Non mi sembra che abbia senso fare video per gli addetti ai lavori, che adesso si occupano più della forma che del significato. Preferisco fare video che siano utili a qualcuno.

Prossimi progetti?
Per la nuova scatola di BAU (un contenitore di arte contemporanea con sede a Viareggio), che sarà dedicata a Leonardo da Vinci, hanno chiesto a noi artisti di creare delle macchinerie: ho costruito un marchingegno per fare della pittura esplosiva a distanza. Guardando i tutorial su internet ho imparato, con un cellulare, ad accendere dei petardi che fanno scoppiare dei colori. Una sorta di terrorismo artistico.

Andrea Balestri
Non è il Pinocchio di Comencini. Apparentemente giovane, studia teatro (non solo) musicale tra Pisa e Roma. Serie tv, pulizie e viaggi in treno occupano il resto della sua vita. Archivia i ricordi in congelatore e si lava i capelli tutti i giorni.

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