Le mille e una notte: scrigno segreto, lampada magica da sfiorare a tracimar storie, maraviglie, vicende sepolte, talvolta da seppellire. Diario e sogno, lividi come il dolore, paurosi come la tenebra, al cui fondo filtra una luce flebile e resistente più che acciaio. È speranza. Attendavamo in gloria il nuovo spettacolo del Teatro Del Carretto: la scelta del testo, uno dei grandi capolavori della letteratura araba e orientale, ci è subito parsa felicissima, persino non sorprendente.
Pure attenendosi al dettato originale, il plesso di storie narrate da Sharazad per salvar la vita rappresentava approdo, possibile e auspicato, per la peculiare poetica carrettiana, nutrita d’immagini sinuose, corpi plastici, suoni robusti e taglienti, con esiti onirici ed estetizzanti. Fiaba come chiave, principio, sorgente. Lo è da sempre, per la coppia d’arte Cipriani-Gregori, sin da quella Biancaneve tuttora riproposta, dopo anni trentadue, con successo e stupore.
Se la scelta poteva pure non suonar imprevista, è il come che, dalla locandina, aveva dragata l’attenzione: una figura muliebre, bendata, revolver alla tempia; emorragia di contemporaneo, quasi attualistica, eppure così coerente con gli ultimi lavori. Va, la mente, alla straziata Giovanna al rogo di tre anni or sono e all’inserto, minimo ma dirompente, dell’Andromaca in carne ossa (Elsa Bossi, musa femminile e fedele interprete della compagnia), unica voce umana e viva in quella fantasmagoria impossibile ch’è stato il riallestimento della mitica Iliade d’un anno fa.
Scena spoglia, quasi povera: il nitore d’un fondale di armadi bianchi, due bambole da carillon in proscenio, ai lati, l’Ave Maria pizzicato sullo sfumare di Gracias a la vida: le struggenti parole di Violeta Parra ci sprofondano in una storia che è e non è quella di Sharazad, figlia del Gran Visir.
Eroina femminile, esempio di coraggio e cuore: s’offre in sposa al sultano Shahriyar, fuco idiota che, causa le corna postegli (ci sarà pur stato un motivo) dalla prima moglie, ha stabilito di straziare e uccidere tutte le successive. È Giacomo Vezzani, movenze furbesche e voce roca soffiata, a condurci al cospetto del regnante, un Nicolò Belliti muscolare e guappesco. Dal fondale, cui le ante mobili rappresentano la soluzione per fenditure luminose e rinventimento di oggetti scenici, arriva Elsa-Sharazad: è l’inizio, quindi, della storia. Delle storie. Non quelle della raccolta, però: secondo un’ardita drammaturgia di scena, le narrazioni che la principessa offre al marito afferiscono alla mitologia greca, a l’Orlando furioso, alla grande letteratura classica; quell’immaginario, potente e inesauribile, che costituisce da sempre un polo attrattivo centrale del repertorio carrettiano. Le storie si susseguono, s’accavallano, e i tre in scena slittano di parte in parte, per un allestimento assai più recitato rispetto ai canoni consueti, benché, considerando gli ultimi spettacoli, si tratti d’una tendenza già in essere per il gruppo. Domina la polifonia: si passa rapidamente da sequenze quasi comiche alla violenza inusitata, ora per evocazione, ora messa in pratica.
Il suono (di Luca Contini) è corredo irrinunciabile a una costruzione potente, ma più monocroma del solito: domina il bianco, macchiato dal rosso sbafato del sangue femminile. Ché le storie son sempre di donne soppresse, sottomesse, schiacciate: non c’è didascalia, non c’è morale, quindi moralismo, e di questo siam grati a Maria Grazia Cipriani. Affiora, però, la percezione, disperata, d’una storia umana che è tutta violenza, sopraffazione, dolore. Dolore su dolore. Aiuta non poco il contributo attorico a non ispessire l’aria: Elsa Bossi è mercuriale nel variar di voce, passando dall’intensità lacerata a squittii quasi cartoonistici; lo stesso Belliti sorprende nelle sequenze quasi grammelottiane, ben supportato dall’eclettismo che riconosciamo da tempo a Vezzani. Recitano i tre, liberi, quasi divertiti, ben alternando luce a oscurità, respiro a pesantezza.
Volendo trovare un limite, per quanto relativo, potremmo dire che il ventaglio delle violenze subite da parte delle donne è assai maggiore, e complesso, del campionario offerto. La vera violenza, definitiva, senza redenzione, è quella in cui la vittima neppure si riconosce come tale: lì lo sprofondo che, forse, vien solo accennato in un alcuni momenti. Sino al finale, in cui, rispettando la fiaba, Sharazad riesce a redimere il sultano: con la forza della dolcezza, della parola, della narrazione. Dell’arte. Un invito a resistere e rilanciare. A non smettere, mai, di nutrire il sogno, anche contro, anche in faccia, anche a favore di chi altro non sembra che conoscere se non la legge del ferro. Che, oggi, è quella del denaro.
Spettacolo in rodaggio, come sempre accade alle prime repliche del Carretto, e che quindi acquisirà ancor più passo, dinamica, affondando nell’orrore quando necessario, per risalire a veder le stelle quando opportuno. Necessita di quadratura per trovare necessità, non che vi sia distante, per poter colpire quanto suppioniamo e rendersi più grande. Offrendo poi, in coda, il sollievo d’un respiro ritrovato.
Del resto, oltre il sangue, oltre il buio, oltre quel grido muto di dolore che rigurgita dal fondo e che non riguarda, come il nucleo intimo di “queste” Mille e una notte, il solo universo femminile, resta l’arte quale esorcizzazione della morte e della sofferenza. Lo sostiene, in modo esemplare ed efficace, Italo Calvino e non possiamo che attenerci alle sue parole: «Sherazade racconta una storia in cui si racconta un’altra storia e così via.
L’arte che permette a Sherazade di salvarsi la vita ogni giorno sta nel saper incatenare una storia all’altra e nel sapersi interrompere al momento giusto: due operazioni sulla continuità e sulla discontinuità del tempo. E’ un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio d’ascoltare il seguito». E nel teatro, aggiungiamo noi. Ed è così che, nello scrigno di storie che Maria Grazia Cipriani, novella Sharazad, ha voluto condividere portare in scena, che scorgiamo un’impossibile, e plausibile, speranza.
(Recensione, in parte rielaborata, pubblicata su La Gazzetta di Lucca il 24 ottobre 2014)