Che cos’hanno in comune Thomas Bernhard, Anton Cechov, Ronald Harwood, Rainer Fassbinder? L’inesauribile miniera delle loro pagine drammaturgiche contiene un ritratto di attore teatrale. Mai un divo all’apice del successo: si tratta piuttosto di mattatori precipitati nella polvere (come il Minetti sbavante ritratto da Bernhard o lo Svetlovidov cechoviano nel poco conosciuto ma bellissimo atto unico giovanile Il canto del cigno) e di guitti malmostosi (come il protagonista di Servo di scena di Harwood). Danio Manfredini ritaglia questi frammenti unendoli ad altri – anche prelevati dal proprio stesso repertorio – per comporre un autoironico, autoreferenziale, autobiografico mosaico sulla vocazione dell’artista drammatico. Vocazione, cioè chiamata: è quella ricevuta da Manfredini, uno dei pochi veri maestri della scena contemporanea, ma è anche quella che lo stesso attore fa al suo pubblico, invitandolo nella camera oscura dove sviluppa le proprie inquiete ricerche e recriminazioni.
Giunto alla sua versione definitiva durante l’edizione 2014 del Festival di Santarcangelo, dopo una serie di studi, questo spettacolo assume dunque i caratteri del recital, quasi fosse una sequenza di cavalli di battaglia; non è compiuto tuttavia come una solitaria prova d’attore, perché sulla scena seminuda quanto un disadorno camerino, oltre a Manfredini, agisce l’ottimo Vincenzo Del Prete, impegnato negli intensissimi duetti come quello tra il violento Cristoph e il transessuale Elvira di Un anno con tredici lune, e coinvolto anche nella regia.
Ma Vocazione è anche una ruvida ed emozionante confessione introspettiva, nonché un diario delle letture quotidiane (ostentatamente esibito per condividere gusti e godimenti personali). Non solo: è ancora un inventario del proprio mestiere, che ha tra le sue voci l’uso delle maschere, bianche, neutre e perturbanti (quasi una costante, fin da Cinema Cielo); e la trasfigurazione (o sublimazione) che avvicina la scena a reminiscenze visive differenti: il teatro orientale, rievocato nella purezza del suo simbolismo metonimico, la tradizione del mimo francese. Una serie di segni riassorbiti in una composizione prospettica che ha il suo punto di fuga nel peso delle parole, e nell’urgenza di pronunciarle.
Per Manfredini il rischio di un’operazione siffatta, si capisce, è di allargare la distanza tra gli ammiratori, che continueranno ad amare incondizionatamente la grazia luminosa dei suoi gesti e le screziature patetiche dei suoi personaggi marginali ed emarginati, e i nuovi spettatori, che rimarranno forse scarsamente invogliati ad approfondire la conoscenza. Tuttavia, se «il teatro è destinato a sparire», come dicono taluni e come riporta Manfredini nelle note di regia, vorremmo che a lui toccasse «dare luce al tramonto».