Sorge dal nero, in una luce lattiginosa, per poi al nero ritornare, fagocitata dal buio che tutto annichilisce.
È l’ultima, pluripremiata, visione di Emma Dante, Le sorelle Macaluso, precipitato onirico, allucinatorio sui temi della famiglia e della morte. Scena spoglia, cruda: ad alimentar la fantasia dantiana non servono arredi né trucchi di sorta. Tutto è nei corpi degli attori, in quella forma indistinta, nerovestita e danzante che abita per prima l’antro oscuro della scena: si muove di grazia aliena, poggiata a una musica silente. Fluttua rotonda e leggera, reminiscenza, quasi citazione, del repertorio coreografico di Pina Bausch, ormai classico contemporaneo. Non è l’unico rimando ai maestri che la drammaturga/regista ci par dichiarare, ma non qui sta il punto. Ogni opera d’arte agisce sul linguaggio, non a partire dal, inscrivendo nella forma le peculiari coordinate del proprio “funzionamento”. E ciò accade sempre con Emma Dante: le figure antropomorfe si moltiplicano, affollano lo spazio, tracciano un improbabile corteo funebre grazie a minime variazioni gestuali. Poi, in bilico di proscenio, ecco l’articolata battaglia tra pupi a chiudere il “prologo”, a chiarire cosa fossero quelle latte appoggiate lì, al confine del boccascena.
Dalle brune tonalità dell’indistinto si slitta ai cromatismi sgargianti dei vestitini estivi delle sette sorelle: il colore è luce opposta al buio, principium individuationis opposto all’informe. Ecco i personaggi ed ecco la lingua, un siculo materico e spezzato a permeare tutta la storia. Che è trasognata e paradossale rimembranza (d’una gita al mare, di una e più morti, dei due genitori) a margine d’un funerale. Il groppo gutturale lascia cogliere solo qualche termine all’orecchio d’un pubblico spiazzato, ma abbacinato dall’estrema potenza e pulizia del disegno. Le sorelle pigolano, scherzano, s’accapigliano: c’è il clown grottesco dalla voce sghemba, la pingue esclusa che, relegata in collegio, s’esprime con calata pugliese, c’è la grande, costretta ad accudir le altre, malgrado le aspirazioni da ballerina. C’è teatro e (ricordo del) Teatro, come nella sequenza “marina”: l’epifania di luce riflessa resa col movimento delle mani, memoria (almeno per noi) d’un bellissimo King Lear di Leo de Berardinis.
È tutto un sogno, mescolio di piani e caratteri per una minuta saga famigliare. Colpisce, soprattutto, il mondo di Emma Dante, la capacità di traslare in termini teatrali l’inusitata compiutezza d’uno sguardo, col merito d’infondere della stessa efficacia i propri interpreti. Giovani, poco noti, eppure versatilissimi, centrati, creativi, d’una peculiare e aerea polifonia che permette loro di virar dal tragico al buffo, dal grottesco al patetico, spesso saldando con sorprendente forza gli stati emotivi (da applausi la sequenza/ricordo del nipote emulo di Maradona precocemente venuto a mancare).
Il limite, non ce ne vogliano premianti e premiandi, è altrove: nel personale, e non ignorabile, percorso dantiano, Le sorelle Macaluso non è, forse, capitolo dirompente o innovativo. Un lavoro ben fatto cui imputare, per così dire, una sorta di stallo nella ricerca intrapresa da ormai più di dieci anni. Non è difetto: gli artisti hanno il diritto di fare e dire quel che pare a loro, così come di ritornare sui propri temi, sulle proprie forme. Allo stesso modo, i critici (tanto più se arlecchini) hanno quello di rimarcare e analizzare, con la massima onestà possibile (!), quel che pare a loro d’aver veduto.