Bizzarro il mestiere (!) dello sguardatore di teatro: alle prese con fenomeni dinamici, ma sempre incline ad ancorarsi in auspicabile metamorfosi a convincimenti che ne de-finiscono ragioni e natura stessa dello sguardo. Anche a rischio d’equivoci o contraddizioni più o meno conclamate. Prendiamo Hamlet Travestie dell’intrepida compagnia Punta Corsara, gruppo che è il risultato d’una scrematura professionale a seguito di laboratori che ottimi operatori della scena contemporanea hanno tenuto nel quartiere di Scampia. Si tratta d’una riscrittura stratificata, coagulo di testi e autori nell’accerchiamento di Amleto, fondendo l’inesauribile soggetto danese con la carnalità teatrale della lingua napoletana (da Antonio Petito) e spunti burlesque (da John Poole), allargando, sino allo spiazzamento, il punto di vista sul prence in ambasce. Cinque attori per una scena scarna, campo di dolci fusioni luminose, stagliando sul nero gli sgargianti cromatismi d’un vestiario plebeo e terronesco alla stregua di grida nel silenzio. Bibi Shakespeare (celiava così Carmelo Bene) in salsa popolana, gran miseria e nulla nobiltà.
Gioco facile per i promettenti attori (manca Vincenzo Nemorato, cooptato da Toni Servillo in Le voci di dentro) portare sul palco la verve che di Napoli fa spettacolo a cielo aperto, operazione del resto memore del gustoso Il convegno, di tre anni fa. S’innesca un gioco d’incastri tra sgarrupata Partenope e marcia Scandinavia, in cui ogni personaggio, con minime soluzioni di continuità, fa le comiche veci d’uno o più rimandi scespiriani, a trasmissione di antipodiche forme d’altrove. Eccessive, chiassose Giuseppina Cervizzi e Valeria Pollice (rispettivamente: madre Amelia/Gertrude e fidanzata incinta/Ofelia), femminili presenze di caotica ossessione per lo spaesatissimo Amleto Barilotto di Gianni Vasterlla (coregista, assieme a Emanuele Valenti). Guappeschi Carmine Paternoster e Christian Giroso in una giostra di caratteri orbitanti attorno Hamlet, nel divertito accostamento di vascio e alt(r)o, nell’ammiccamento protratto d’uno sciente strabismo: il gran teatro e la dimensione camp, secondo la lezione dei maestri incontrati. Come il bellissimo Don Fausto allestito anni fa da Arturo Cirillo, poi al lavoro coi corsari su un testo di Viviani, per non dir di quel gusto pittorico che pare lecito tributo a un certo dantismo, linguaggio ormai assimilato dal lessico scenico contemporaneo.
L’impressione è, però, d’una qualche stasi creativa: vi sono scorci divertenti, ma è la dimensione parodica a veicolar l’effetto, specie con un pubblico (molti addetti ai lavori) abile a decriptare il gioco di specchi sotteso in scena. Viene meno, ci pare, il guizzo, quella luccicanza autentica intravista e che qui fatichiamo a individuare. Dubbio sempre in agguato: trovarci a giustificare con attentuanti circostanziali (ah, ma il contesto…) il risultato d’un lavoro corsaro, a nostro avviso, rischia di rappresentare la più profonda delle ingiustizie, nei confronti, in primis, dei ragazzi stessi. In modo forse grossolano, ci ancoriamo alla convinzione che l’etica sia un momento dell’estetica e che, se uno spettacolo s’incaglia poggiandosi su platee preventivamente favorevoli, sia forse il caso di suonare un qualche campanello d’allarme. Difficile, certo, coniugare la (presunta) saputezza d’uno sguardo come questo con l’entusiasmo circostante, ma si scrive, tra le varie cose, per costruire ponti, non certo per bruciarli dietro di sé.