Paura. La vertigine per l’ignoto, a sottrar certezze, aumentare il peso, sprofondo (in)immaginabile, nel residuo larvale di quella coscienza tanto evocata quanto ignota. Con lo spettro della paura, didascalica proiezione in nero da cinema d’antan, s’apre l’ultimo corpo a corpo di Roberto Latini col teatro, attraverso un testo chiave del nostro Novecento, I giganti della montagna. Un altro corpo a corpo, non meno abbacinante e disperato, tra Luigi Pirandello e la scrittura per il teatro.
Si sommano, nel lavoro di Latini, un precipitato d’urgenze, un’abrasiva necessità di confronto/scontro che assume ogni volta i tratti dell’atto finale, del punto di non ritorno. Pensiamo a Ubu Roi, a Noosfera museum, per arrivare a questo Atto primo che già in sé sfoggia i crismi d’una sua peculiare completezza. Non siamo allo studio gabellato per spettacolo (malattia d’un sistema: troppo facile lanciarsi nel dagli al teatrante), al bozzetto spacciato per quadro. Qui il disegno si coglie, nella rilettura efficace (termine da intendersi nelle sue sfumature magiche) d’un testo ad altissimo coefficiente di complessità e simbolismo.
È solo, Latini, dopo un primo tentativo al fianco della brava Federica Fracassi. I corpo a corpo s’han da affrontare in prima persona, senza delegare. Dilagare, piuttosto. Gli riesce, moltiplicato nelle voci che ne attraversano l’ugola per vibrare dall’impianto audio, aguzze sui bassi reiterati d’un groove simil-dance. Spiriti ritornanti mediante il rito più antico e pericoloso, gli oltre venti personaggi del testo pirandelliano s’animano attraverso voce e carne dell’attore, succhiandone forze, sangue, vita.
Il testo, per i necrofili del genere, è riproposto alla virgola: mai Pirandello ci è sembrato più contemporaneo, necessario, ricuperato alla sua emergente impellenza. Non c’è storia, o quasi, ché tutto sfuma dinanzi al dedalo d’uno spettacolo che è teatro, contravvenzione di un paradosso tra i più coltivati dalla scena d’arte. La girandola di voci (Cotrone, Ilse, la scalcagnata truppa giunta all’improbabile cospetto dei Giganti) rimbalza dal corpo dell’attore: ora nudo, ora fasciato, avvolto dalla luce lunare che bagna un campo di spighe di grano o dagli sbuffi d’un fumo terroso, forse allusivo a misteriche religioni antiche.
Risale al profondo per calarsi in sommità, dove il verbo tace, dove non si può né ci sarebbe da dire altro. Tecnologia e materia organica: dialettica prima sonora, poi visiva, per una scrittura che solo in scena trova dimensione, quadratura, stringente realizzazione.
Questo è Pirandello, strappato alla polvere, al litaniare fiacco da antologismo didattico, riportato alla sua più intima e feroce ineluttabilità, che è quella dell’artista che se ne fa carico. Troppo facile, ora come prima, paventar amletici spettri (Bene e De Berardinis) all’indirizzo di Latini. Il rischio paradossale è di neutralizzarne la bruciante vitalità a mezzo di complimenti e premi, attribuendogli le (pur condivisibili) stimmate da genio. Il quale «fa quello che può», ché il talento «fa quello che vuole»: ecco, è in questa costruzione/costrizione, inderogabile quanto ostinata, che troviamo il portato inesorabile del teatro di Latini, la sua irrinunciabilità. Oltre la dimensione comoda della bravura (e dell’autocompiacimento talvolta balenato al suo indirizzo), oltre l’apollineo di performance cui ci pare improponibile chieder di più, sino alla paura saggia e infantile di chi, sfiorato dal dio, ha visto, sperimentato in prima persona il terrore dell’abisso.