È passata qualche settimana dall’uscita della revisione dei regolamenti relativi al Fondo Unico per lo Spettacolo, con una radicale modificazione della geografia istituzionale del teatro italiano. Tra i primi a parlarne, Massimiliano Civica in una bella intervista alla testata Doppiozero, giustamente ripresa da molti poiché in grado di fornire un’interessante lettura dell’accaduto [nonostante non sia stata rilasciata a noi!, ndr]. Abbiamo quindi deciso di rilanciare il discorso (l’attualitàè così fatta: qualche rilancio, altrettante condivisioni e poi, via, si tira avanti), ponendo alcune domande sul tema ad alcuni artisti, operatori e addetti ai lavori, per una serie di interviste in parallelo.
Questa volta, il nostro interlocutore (qui la lista progressiva con tutte le interviste) è Roberto Bacci, regista, fondatore del Centro per la Sperimentazione e Ricerca teatrale di Pontedera (ora, con la Pergola di Firenze, Teatro Nazionale della Toscana), autentica memoria storica del teatro contemporaneo in Toscana e non solo.
[La presente intervista è stata realizzata con l’aiuto di Andrea Balestri, ndr]
Da chi è ispirata la riforma? È il risultato dello scollamento tra la realtà della politica e quella del teatro o, piuttosto, ha un preciso scopo?
Lo scopo è di mettere ordine: il che non è né positivo né negativo. Negli anni della mia giovinezza, l’Italia, rispetto alle altre nazioni europee, era una giungla di possibilità: un caos, gestito dal punto di vista culturale dagli enti locali. Lo Stato si limitava soltanto alle grandi istituzioni teatrali, mentre delle esperienze artistiche di base si occupavano gli enti locali. Ne siamo stati un esempio: Pontedera Teatro, in origine, era un’associazione tra un gruppo di amatori e un ente locale; oggi sarebbe una cosa fuori da qualsiasi legislazione. Da quel paradosso, però, è nato un teatro nazionale. Con la crisi, ci sono stati diversi tentativi di riorganizzazione, per gestire questa “nube” formata da esperienze ricche e diverse tra loro, sorte, in origine, da investimenti che le comunità locali facevano sulle persone, anziché sui teatri. In questo quadro, la riforma fa cose positive e negative: valuteremo.
Per noi è stato un radicale cambiamento di prospettiva: nel 2014 ci eravamo preparati per la promozione di giovani gruppi, lavoro svolto per molti anni (Carrozzeria Orfeo, Teatro Minimo, Lo Sicco-Civilleri e altri ancora). Ci siamo trovati, invece, la nomina a Teatro Nazionale: non per nostra scelta. Io avrei preferito, in Toscana, una sinergia tra Pergola e Metastasio: noi ci saremmo ritirati nel nostro TRIC (Teatro di Ricerca e Interesse Culturale), continuando a sviluppare quel che abbiamo sempre fatto. Ricordiamoci che Pontedera ha un’origine proletaria: abbiamo imparato il teatro facendolo, incontrando i maestri, un’esperienza di relazioni e apprendistato che pochi hanno in Italia.
Quando Prato ha rinunciato alla creazione del binomio con la Pergola per la nomina a Teatro Nazionale, la Regione ci ha proposto di subentrare: un onore e, obiettivamente, credo che fosse giusto che la Toscana, in quanto identità culturale, non venisse privata di una simile realtà produttiva e istituzionale. Ovviamente, stiamo cercando di unire due realtà in un corpo solo: non è semplice, è un matrimonio, con tutte le difficoltà del caso. Per adesso, però, le cose vanno bene.
Tornando alla legge: il tentativo è ristrutturare il teatro italiano su tre livelli sostanziali, con un solo difetto, ossia che per realizzare le ristrutturazioni servirebbero soldi, come sempre. Se devi produrre uno sforzo maggiore alle stesse condizioni precedenti, è inevitabile che qualcosa vada perduto.
In Toscana quali realtà saranno favorite dal nuovo assetto?
Mi pare evidente che, per Pontedera, il “treno” del Teatro Nazionale rappresenti un’occasione difficile da rifiutare. Si tratta di cambiare prospettiva, di rinnovarsi, ripensarsi, aprirsi anche al cambiamento: qualcosa che, sinceramente, ho sempre cercato di fare nel mio percorso artistico e personale. In generale, saranno favorite tutte le realtà che sapranno interpretare nel miglior modo le leggi, cambiando modo di agire senza farsi intrappolare, neutralizzare. Se la si vede in questo senso, è una sfida interessante.
Il fatto di avere due sedi è molto positivo: un modo di interloquire con la regione in maniera diversa. Tutto questo lo stiamo facendo già da ora: quest’anno con la sofferenza di dover rientrare in parametri per cui non eravamo preparati, ma ce la faremo.
Lo spettacolo ha bisogno del pubblico, il teatro ha bisogno dello spettatore: sono due cose diverse. Io credo di aver dimostrato che, per me, la cosa fondamentale sono gli spettatori. E se la riforma chiede un certo numero di spettatori, il modo di non rinunciare a questa prospettiva lo possiamo studiare
Come cambierà il tuo modo di programmare o produrre? Credi anche tu di dover fare più spettacolo e meno teatro per avere i requisiti di accesso ai finanziamenti?
Si richiede un cambio di prospettiva radicale, mi pare evidente. Voglio fare un esempio: all’inizio, mi pareva assurdo non poter investire nei gruppi teatrali come prima, perché gli spettacoli fuori sede devono essere il 20% di 240, quindi 46; praticamente niente. Se prima i gruppi vivevano girando, oggi non possono più farlo se stanno in rapporto con noi. Possiamo però pensare di produrre, con quegli stessi artisti, non spettacoli da far girare, ma progetti per conoscere altre possibilità e prospettive del teatro dal punto di vista artistico. Cambiando questa logica guadagni molto, perché agli artisti che saranno in rapporto con noi (Cauteruccio, Motus, Giovanni Guerrieri, Babilonia Teatri) possono essere nostri interlocutori per progetti che abbiano il teatro come strumento e che cerchino relazioni con temi e con spettatori, non per forza la molteplicazione delle repliche. Esperienze produttive che diventino opere d’arte: è un elemento interessante che spinge a ragionare in maniera diversa insieme alla possibilità di avere un gruppo stabile di artisti e di tecnici. Ciò si traduce in lavoro formativo, che è anche possibilità di crescita per chi prima era legato una precarietà che portava a fare tutto “alla meno”. Gli attori di un nucleo artistico consolidato possono avere la possibilità di fare nuove esperienze, crescere. In questo senso, ho lavorato molto in Romania, con un gruppo che ora verrà in Italia per alcune recite.
Questi sono aspetti positivi, da sommare a uno, per me inquietante all’inizio: non poter più girare con produzioni che facciamo noi come Teatro Nazionale. Perché? Per dare spazio agli altri gruppi che girano. Fino a oggi, coi teatri stabili, il mercato era bloccato dai loro scambi: non sarà più così. Adesso, nei cartelloni selezioneremo quel che ci interessa, creando una relazione con il pubblico, mentre prima era legato alle nostre produzioni o ai teatri che ci ospitavano.
Venendo alla seconda parte della domanda, nel teatro nazionale muta il rapporto con lo spettatore. Da una parte, il vincolo a riempire la sala, ma questo può obbligare a istituire un nuovo rapporto con gli spettatori, e noi su questo stiamo lavorando da tempo. Adesso è come portare questa cultura all’interno di una legge, di un contesto nuovo: che si chiami nazionale, provinciale, locale, non me ne frega nulla.
Lo spettacolo ha bisogno del pubblico, il teatro ha bisogno dello spettatore: sono due cose diverse. Io credo di aver dimostrato che, per me, la cosa fondamentale sono gli spettatori. E se la riforma chiede un certo numero di spettatori, il modo di non rinunciare a questa prospettiva lo possiamo studiare. Un esempio: noi dobbiamo fare circa il 40% di produzioni “in casa”, cioè tra Pontedera e Firenze. Chiaramente, andare in scena sul palco della Pergola è come spararsi, ma possiamo scegliere, con lo spettatore, un tipo di relazione diversa: non basata sul numero, ma ripensata sul realizzare progetti più che spettacoli. Non so cosa faranno alla Pergola: adesso c’è Lavia, non so se rimarrà, ma è chiaro che lui, per cultura e per tendenza, fa i grandi numeri. Nell’intenzione culturale, però, poter avere un tipo di produttività mirata alla relazione, può implicare la realizzazione di progetti ripetuti, non per forza di tanti spettacoli. Quando abbiamo fatto Mutando riposa, per 25 spettatori, quello poteva essere definito un progetto: volevo “quella relazione”, in quello spazio, con quel tipo di linguaggio. Non è un problema di ricerca o non ricerca: è capire la differenza fra spettacolo e teatro.
Con la riforma, i direttore artistici di Teatri Nazionali o dei TRIC, qualora fossero registi, non potranno più produrre spettacoli presso teatri di cui hanno la guida: è giusto? Non è possibile che la norma venga aggirata, magari, collocando dei prestanome o innescando politiche di scambio.
No, non è possibile. Io quest’anno ho già fatto uno spettacolo con Cacà Carvalho [foto a sinistra; leggi la recensione di Carlo Titomanlio e quella di Giacomo Verde, ndr], e non ne posso più fare. Ne farò uno l’anno prossimo, poi uno nel 2017 con Michele Santeramo, che stiamo già scrivendo. Ad agosto 2016, dirigerò uno spettacolo all’estero, Don Giovanni di Molière col Teatro Nazionale di Romania, ma questo tipo di attività è ammessa. Alla fine, sono sette teatri: se sgarri ti scoprono. Conosco tutti nella commissione e il ministro sta attento, ti guardano anche le virgole, cose che non avrei mai pensato.
Massimiliano Civica afferma: «Davanti poi a spettacoli oggettivamente brutti ho detto che erano interessanti, perché i registi di quegli spettacoli erano anche i direttori di teatri in cui io volevo andare con le mie produzioni. Ho continuamente rinunciato al mio giudizio e alle convinzioni d’artista, perché bisogna “stare al mondo”». A te è mai capitato quest’impasse?
Per me funziona in un altro modo: se sono amici e persone che stimo, dico quello che penso senza il minimo problema. Ho un carattere per cui riesco a spiegarmi, anche a scherzare, senza offendere: se sono persone intelligenti, non si offendono. Se non sono amici, posso esimermi dall’esprimere giudizi: non ho mai avuto problemi a far girare i miei spettacoli. A me piace farli, più che portarli in tournée: ho fondato Pontedera per essere libero, avere la mia autonomia. Ho pagato, tanto, perché ho dovuto imparare a fare tutto. Però, mi sono liberato dal giudizio. Quindi non ho mai avuto di questi problemi, anzi: ho sempre avuto la possibilità di scegliere chi invitare o no. Ho diretto Santarcangelo, Volterra, ora Fabbrica Europa, e mi sono sempre orientato sulla qualità, che è legata al giudizio personale fino a un certo punto. La qualità si vede, anche se poi una cosa non piace personalmente. Sono stato il primo a ospitare la Societas Raffaello Sanzio quando nessuno li voleva: non ci capivo quasi nulla, erano lontani da me, ma sentivo che lì c’era qualcosa.
Da parte della collettività ci dev’essere un dovere di sostenere economicamente, ricevendo qualcosa in cambio, cioè il valore culturale che un teatro può dare.
Si può immaginare un’attività teatrale, artistica, che possa esistere al di fuori dei finanziamenti pubblici, ed essere allo stesso tempo alternativa alla cultura dominante, testimoniando una possibile diversità dalla maggioranza?
Sì, noi siamo stati così, all’inizio. Poi abbiamo dovuto, in qualche modo, fare una cosa importante: la comunità, secondo me, ha il dovere di finanziare. Io ho sempre detto agli amministratori: io do garanzia di onestà, pulizia, impegno; da parte della collettività ci dev’essere un dovere di sostenere economicamente, ricevendo qualcosa in cambio, cioè il valore culturale che un teatro può dare. Se la relazione è equilibrata, è giusto che la comunità paghi e chieda qualcosa in cambio. Non numeri, ma la qualità. Come diceva Grotowski: in quanti hanno letto l’Ulisse di Joyce? In dieci, ma ha cambiato la storia della letteratura. Io non mi considero Joyce, ma la logica deve essere quella.
Come dovrebbe essere il paradigma di una buona riforma, per te?
Probabilmente è utopico e irrealizzabile, ma, dalla mia esperienza, sento la necessità di trovare un modo di far nascere e crescere ciò che è improbabile. Un modo per fecondare delle esperienze interessanti, anche se poi ne venissero fuori due su cento. Ma chi può decidere e dire «Te sì, te no»? Su quali basi? A me, per esempio, avrebbero detto sicuramente di no, quindi capisci bene che queste cose sono davvero molto, molto delicate.