In due (Serena Gatti e Raffaele Natale), donna e uomo, unici abitanti di un limbo adornato da pochi oggetti, silenziosamente disposti sul palco. Non vengono date indicazioni sul luogo, non ha importanza per la dinamica di coppia che va consumandosi nel corso dello spettacolo. Lui e Lei, simboli di un genere, entrambi contraddistinti dal blu dei vestiti che indossano: immobili, rinchiusi in un mondo che sembra cercare di divincolarsi dagli stereotipi, proiettato verso un cambiamento che non avviene; la stasi finisce per trasformarsi irrimediabilmente in quotidianità.
È un’esistenza contaminata, quella dei due protagonisti, contesa tra musica e parola, giocata sul contrasto tra l’artificiosità della poesia e della letteratura e l’essenzialità dell’ordinario.
Somiglia a un continuo rincorrersi, ritrovarsi con la consapevolezza di scoprirsi gli stessi di sempre. Il testo poco a poco muta e si evolve, le parole acquisiscono una voce, quella degli attori che finiscono per divenire mezzo attraverso il quale la suggestione concepita in scena arriva a nascere.
A guidare l’idea è la musica, vero e proprio elemento narrativo: scandisce il tempo della messa in scena, tracciando un confine ben definito tra l’intimità del singolo e il relazionarsi della coppia. Il parlare si acquieta lasciando il posto all’ espressione del corpo vulnerabile alle note della chitarra suonata dal vivo dallo stesso Raffaele Natale.
La scena gradualmente si anima e, sotto le asettiche luci che la illuminano, uomo e donna si conoscono incerti, cercando di prendere le misure nei confronti l’uno dell’altra. Teneramente semplici, provano a vivere affrontando giorni che hanno la pretesa di essere differenti, vivendo la reclusione di un interno, che a tratti richiama la dimensione domestica, allestito nella pancia di un eterno serpente che inghiotte la propria coda.
Un infinito ripetersi che riconosce nel suo punto di partenza anche il punto di chiusura. Il cerchio sembra infine sigillarsi nell’ immutabilità lasciando ad intendere che in fondo la stasi cui uomo e donna cercano di uscire ha trovato ancora modo per esistere.
In Canto i fogli fuggono via dalle mani della donna che tenta di leggerli, la casa, il nido di amore, diviene gabbia per uccelli dalle numerose sbarre proiettate sul fondale, la voce si lega in maniera sempre più stretta alla melodia, il corpo alla materialità della scena, l’uomo alla donna.
Uno spettacolo nato e studiato per essere corale, un lungo lavoro di trasposizione che ha portato dagli ambienti esterni della Certosa di Calci all’adattamento negli spazi definiti del teatro, dal gruppo alla coppia. Un allestimento originale capace di trovare la sua forza nel lavoro nato direttamente in scena durante le prove.
Scelto dal Faki Fest, festival di teatro contemporaneo tenutosi a Zagabria, Canto tiene socchiusa la porta d’accesso al suo limbo, lasciandosi docilmente spiare dallo spettatore.