Penultimo giorno del festival, ma non lasciamoci prendere dalla malinconia, d’altronde non ve ne è il tempo: ritmi serrati in questo sabato estremamente denso. Chi abbia seguito tutte le rappresentazioni della giornata percepisce i primi sintomi di una vaga spossatezza: Punta Corsara ha saputo mantenere ferma la nostra attenzione, catturandoci per quasi due ore, trascorse assistendo a uno spettacolo di comicità nerissima che non scade mai nel banale.
Io, mia moglie e il miracolo, ideato da Gianni Vastarella (cimentatosi per la prima volta come drammaturgo e regista, con splendidi risultati), prende le distanze dalla naturale accezione di sacralità, riportando l’unico elemento sacro (il miracolo) a una dimensione non solo pagana e a-religiosa, ma pure totalmente ironica, dai tratti demenziali.
Un universo in cui i valori morali traballano, incerti, privi di alcun riferimento, totalmente soggettivi. Un mondo di maschere statiche i cui portatori sono drammaticamente isolati, nessun contatto è possibile. Evidenti la linearità della rappresentazione, la staticità di personaggi dai tratti ben definiti, la nettezza delle immagini sceniche, con attori che, non guardandosi mai, conquistano i loro spazi come statue, o marionette i cui fili non hanno necessità di essere tirati.
Questa rigorosa pulizia formale, priva di virtuosismi se non nella squisitamente eccentrica recitazione di Vincenzo Nemolato, è accostata a un contenuto che segue logiche folli interne all’opera, assolutamente coerente nella sua dissennatezza. Il protagonista, fulcro dell’azione scenica benché posto sullo stesso piano degli altri personaggi, riveste lo stereotipo del severo padre di famiglia, ma fin da subito emergono elementi dissonanti: perché l’amore per la lavanderia? Quale folle orario prolungato impedisce alla bambina di tornare a casa da tre settimane?
Non è complesso per il pubblico unire elementi apparentemente incoerenti e disgiunti che, come in un romanzo giallo, convergono interamente su di lui. Il filo noir è macchiato di un’ironia vivissima, il fine ultimo non è più smascherare il colpevole, ma venire a capo delle dinamiche che muovono i personaggi, e le dinamiche, sì lineari, si fanno in ultimo imprevedibili. I personaggi sono dunque maschere: il marito violento, la moglie sofferente, la bambina (che compare solo nell’ultima scena), lo sceriffo inadempiente, la prostituta, “l’uomo con la stecca” (uno strano carattere, apparentemente marginale, unico a sapersi mettere in discussione negando la propria stessa natura), “il guaritore” capace di compiere miracoli.
Maschere grottesche velate di una tragicità di cui esse stesse si fanno beffe, ed ecco che la violenza è comica nella sua assurdità, il miracolo diviene un gioco, addirittura la resurrezione si fa fenomeno di cui non stupirsi. L’immobilità delle forme, nelle quale la vita umana viene forzatamente racchiusa (ricordando concezioni pirandelliane, ma anche certe atmosfere surreali riconducibili a Lynch), non può che portare a stabilità illusorie e assurde, quali la riunificazione finale della famiglia protagonista che, in ultimo, ci fissa con vacui sorrisi, tanto inequivocabilmente forzati da apparire assolutamente naturali.