Andrea Gambuzza recita, balla, corre, si dispera, commenta con cinismo, sbraita, dialoga con presenze immaginarie. Il monologo dell’eclettico attore-autore del livornese Orto degli ananassi, presentato a coda di un pantagruelico banchetto nella pittoresca sede del Teatro del Sale, non si accontenta certo di ridursi a mera appendice ornamentale di una serata all’insegna dei piaceri del palato; riesce, anzi, a catturare l’attenzione degli avventori attraverso un racconto dai ritmi vivaci e incalzanti, segnato dall’energia trascinante del suo poliedrico interprete.
Il testo di riferimento di questa singolare pièce è lo shakespeariano Riccardo III, qui proposto attraverso una rilettura in chiave contemporanea che trae giustificazione dalla similitudine che l’autore – sempre Gambuzza – evidenzia tra i personaggi del testo originario e quelli dell’odierna politica e dei suoi inquietanti dietro le quinte fatti di corruzione, interessi personali, elaborati sotterfugi: un quadro inclemente dove nessuno sembra salvarsi.
Il lavoro attoriale è complesso. L’interprete, affidandosi alle proprie doti di trasformista, muta continuamente postura fisica e inflessione vocale, sostenuto da accessori bislacchi e abiti dalla funzione metonimica nella rappresentazione dei vari personaggi. Ad aumentare la difficoltà performativa, le frequenti interazioni con una composita trama sonora fatta sia da voci preregistrate, con cui interagire dialogicamente, sia da inserti musicali, tormentoni o cult del rock più o meno datati dall’immediata riconoscibilità, che contribuiscono a dare alla messinscena un tocco decisamente pop.
La forza scenica e l’energia debordante strappano il riso, catturano l’interesse, danno consistenza palpabile alle presenze che si succedono in scena, ciascuna nella sua perfetta caratterizzazione. Con disinvoltura, l’interprete passa da un personaggio all’altro, proponendo una narrazione polifonica dagli innumerevoli punti di vista che passa in rassegna caratteri dalla dubbia moralità: c’è il magnaccia cocainomane costantemente al telefono con la squillo o il potente di turno, l’infida transessuale ricattatrice, la vecchia bigotta romanaccia sfegatata fan del nuovo re (lo slogan «Meno male che Riccardo c’è» ci suona, in qualche modo, familiare). Infine, ovviamente, Riccardo stesso: dai difficili dialoghi giovanili con la madre e i fratelli al disperato vaneggiamento che si conclude con la morte, al termine di una lotta all’ultimo sangue ingaggiata contro i tanti fantasmi che lo perseguitano.
Oltre all’esecuzione, del tutto degna di nota è l’operazione di riscrittura drammaturgica compiuta, che trova un senso nel ricercare lo spirito del testo originario – qui completamente trasfigurato, se non per i pochi ma significativi brani rubati alle riflessioni monologiche del protagonista shakespeariano – attraverso il suo superamento; una volta assunto che il contenuto di un’opera non si limita al testo scritto, ma sia da considerarsi strettamente connesso alle circostanze storiche, sociali e culturali in cui tale testo è stato redatto, occorre ammettere che agire (anche) in questo modo non può che tentar di rendergli giustizia. Un plauso, quindi, anche al Gambuzza autore, per questa pungente rielaborazione in cui testo e con-testo sono le due parti di un’unica, stravagante medaglia.