Alonso Chisciano, ingegnoso hidalgo; Sancio Panza, fido suo scudiero.
Assisi a terra, gambe conserte, capi reclinati sui petti. Immoti.
Incuranti del bollore equatoriale nel minuto teatrino di Lari, degli spettatori bocianti, stipati a forza (taluni costretti alla rinuncia) sui gradoni in legno dove han preso posto.
Due corpi, quasi gemelli, non fosse per la stazza: a destra, più piccolo, Ciro Masella, al fianco, Marco Brinzi, ugualmente vestiti, in beige e blu. Li carezzano le luci, per poi sfumare al buio.
Si destano e dicono d’un sogno, identico, nell’intreccio di voci che è tra i temi, in senso latamente musicale, dell’allestimento. Spiazzante, sulle prime, l’assegnazione dei ruoli: Brinzi, longilineo e atletico (benché quasi sempre seduto) è il rustico Sancio, razionale perché terreno, crudele perché concreto; Masella è un Chisciotte fragile, ma indomito, tenero, ma puntuto. Scelta meditata e, vedremo, scientemente capziosa, ché sullo slittamento di senso, identità e percezione, è strutturata la partitura testuale di Stefano Massini.
Sogno di nera premonizione quello che i due accomuna e lancia in una dissertazione dialogata sul tema della morte, la sua attesa, la sua ineluttabilità. Ne discutono e s’accapigliano come allampanate maschere da teatro absurdista, piantate in una desolata terra e anonima per quasi tutta la recita. La scherma è ben mossa, strappa risate al pubblico trascinato dal ritmo vibrante, punteggiato dal buio che seziona la pièce in segmenti conchiusi. Masella dilata e comprime il dettato, varia di passo e intensità, col piglio che sappiamo appartenergli; Brinzi, per contro, sorprende ancor più, per la recitazione grottesca, di mugugnate ruvidezze in un arrochito vocione baritonale, ad ampliar ulteriormente lo spettro espressivo d’un attore già completo. Bella coppia e la memoria va a Il muro, primo allestimento in cui li abbiamo visti collaborare, sempre qui, a Lari.
Si specchiano, Sancio e Don Chisciotte, nel gioco al (dolce) massacro d’un rapporto in cui l’alto s’inverte col basso, il forte col debole, l’adulto con l’infante. L’arguzia plebea del servo stringe al collo del signore il cappio d’una filosofia terragna e inoppugnabile: la morte, come il tempo di cui è corollario esiziale, non s’evita né s’inganna. Inutile ordire espedienti. Non le serve annunciarsi, compaia o meno, nella luce aurorale, l’albero di melograno ai piedi del quale i due han sognato di risvegliarsi trovando il compagno defunto. La doppia riflessione investe e ribalta i caratteri: ora Masella è il servo, Brinzi il cavaliere, riassestando voci e fisicità. Qui il testo indulge e, nell’innegabile fattura, denuncia i limiti paradossali d’un controllo che ne stempera l’urgenza. Si chiude comunque in bellezza, con echi scespiriani sospesi tra sogno e tempesta, sino all’approdo alla più intima, teatrale e tragica verità.
Ingegnoso ordigno testuale, più esatto che avvincente, Gioco di specchi riluce della giustezza dei suoi interpreti, d’una regia (di Masella) meditata, ma che, forse, avrebbe potuto osar di più nell’asciugare una scrittura sin troppo specchiata, compiaciuta.
Lascia un buon sapore, e la suggestione pesca nella memoria l’apologo citato da Calvino (nume forse aleggiante sul gioco massiniano) a proposito di Les fleurs bleues, memorabile romanzo di Raymond Quenau, da lui tradotto: «Chuang-tzé sogna d’essere una farfalla; ma chi dice che non sia la farfalla a sognare d’essere Chuang-tzé?»