C’è di che essere riconoscenti a spazi come SPAM!, e non lo diciamo per ingraziarcene l’ufficio stampa (già ci tratta con guanti più che algidi) quale principale destinatario dei nostri scritti (dopo o parallelamente al questionazzo agli attori, dovremo approntare qualcosa di analogo per gli spettatori, anche per capire se e chi ci legge davvero), bensì perché rappresenta un’autentica e rinnovata occasione di confronto culturale ed estetico, con proposte mai scontate o banali e di altissima qualità. La stessa di cui ci si riempie le ganasce a destra e a manca, dalle tavole rotonde in favore del prosciutto nostrano (che non disdegnamo: s’accettano prebende) ai convegni sull’accoglienza turistica in cui, ça va sans dire, confluiscono pure gran parte delle chiacchiere sull’impresa culturale, vista solo e soltanto come fonte di profitto, qualcosa che debba “rendere”, al di là di cosa sia o possa essere e significare. Con queste considerazioni, ci appollaiamo a terra (scelta nostra: la sala porcarese è gremitissima) per assistere al solo di Michele Abbondanza intitolato I dream, realizzato assieme ad Antonella Bertoni, compagna d’arte e di vita da quasi un trentennio. Come dire: “Signore e signori, la storia della danza contemporanea” e scusate se è poco.
Si tratta d’un viaggio sinuoso all’interno dell’immaginario di Abbondanza, peculiare e paratattico pot-pourri di reminescenze coreutiche, quasi a ripercorrere la carriera dell’artista. Non un best of, niente di autocelebrativo o compiaciuto, bensì un incessante caleidoscopio di slittamenti, articolato in quadri più o meno leggibili, almeno per l’occhio di chi scrive.
Sin troppo facile arrestarsi dinanzi a una certa autoreferenzialità, dato da accogliere pacificamente in un lavoro il cui titolo corrisponde a una dichiarazione svolta in prima persona, peraltro relativa a una delle attività più personali e incontrollabili per qualsiasi soggetto.
L’ampio spazio è pressoché sgombro, il primo arredo notevole un parallelepipedo nero, podio per un’improbabile “bionda” (il danzatore, con folto parruccone color grano) autocelebrantesi in un maccheronico inglese. Da qui, il viaggio, tra immagini proiettate (lacerti del passato con Sosta Palmizi, spettacoli “mitici” e sequenze private) e una colonna sonora eterogenea a tradurre la vocazione eclettica, non senza ironia, dell’artista: all’inizio, troviamo una certa difficoltà nell’unirci al gioco offertoci, ma, complici gli Skiantos di Largo all’avanguardia (“…pubblico di merda!”, immancabile complemento), registriamo una progressiva sintonia col procedere della performance che, in alcuni momenti, si fa, pure per noi, toccante.
È il caso dell’esecuzione, chitarra e voce, di Carte da decifrare, gran canzone di Ivano Fossati riproposta in chiave personalissima, con voce ben più acuta e una rara credibilità. O le ultime sequenze, che risentono della collaborazione dichiarata con Danio Manfredini, nell’affiorare d’immagini più intime frammiste a momenti d’intensa plasticità gestuale. Non tutto, ripetiamo, facile da percepire (alcuni addetti tra il pubblico, per intenderci, si sono esplicitamente commossi), ma senz’altro dotato di quel quid che vorremmo sempre chiedere a un’opera d’arte, ben più della sua (peraltro sempre discutibile) assimilabilità, quasi sempre tradotta in vocazione al consumo. Del resto, e non per tornar sempre in pelaghi noti, abbiam tratto ben più da questi cinquanta minuti, senza essere critici specializzati del genere, che da costosissimi kolossal di oltre quattro ore.
Gli applausi sono copiosi, e non possiamo che unirci.