Con la nozione di mutuo ambiente cognitivo si intende l’insieme di fatti manifesti a due interlocutori e di cui a entrambi è, si scusi il bisticcio, manifesto che all’altro sono manifesti. Sarebbe a dire: io so che tu sai; tu sai che io so; io so che tu sai che io so, e così via. Le interazioni nella vita quotidiana, d’altronde, non sono precedute da una verifica di cosa sia effettivamente manifesto all’altro: Harold Pinter – che probabilmente non conosceva le teorie di Sperber e Wilson – gioca sempre sull’esasperazione dello scarto tra ciò che crediamo che l’altro sappia e quello che effettivamente sappiamo conosciuto dall’altro. Concetto in apparenza contorto, ma se applicato all’adulterio, come in questo Tradimenti, diventa chiarissimo: ripercorriamo in scena la storia di Emma (Ambra Angiolini), sposata con Robert (Francesco Biscione), che tradisce con Jerry (Francesco Scianna), il migliore amico del marito. L’occhio dello spettatore parte dal 1977, quando ormai la storia è finita da un paio d’anni, e ne ripercorre i passaggi salienti fino alla sua origine, nel 1968: dalla nostra comoda prospettiva posteriore ne leggiamo in nuce le tendenze che porteranno, inevitabilmente, al collasso.
Così fan tutti, verrebbe da dire: andando avanti nella storia (o, meglio, indietro) emerge, più o meno esplicitamente, che non solo i tre personaggi in scena, ma anche quelli nominati, tendono al tradimento piccolo-borghese. Vita agiata, ristoranti, viaggi a Venezia: l’adulterio diventa quasi uno status symbol, una seconda casa emotiva.
Pinter sperimenta tutte le possibili combinazioni tra i tre personaggi, in un vortice di provocazioni e negabilità plausibili in cui non è mai chiaro chi sia a conoscenza di cosa. Un’innocente conversazione su un’escursione a Torcello diventa il ring per insinuare subdolamente l’infedeltà della moglie, senza prendersi la responsabilità dell’affermazione. Il confronto di pareri su un autore è un terreno parallelo in cui far intendere (forse) all’amico di essere a conoscenza della tresca. Parlare di qualcosa per dire qualcos’altro è un tratto distintivo della produzione pinteriana che, riferito all’infedeltà coniugale, crea un’alchimia perfetta, un equilibrio precario di tensione e coinvolgimento. O almeno dovrebbe.
Il terzetto in scena (diretto da Michele Placido) si limita a cavarsela: sono evidenti i passaggi in cui il regista ha indicato certe inflessioni riguardo a parole o gesti. Manca una visione organica del testo, recitato come una qualsiasi commedia: il modo in cui è trattato il triangolo amoroso fa pensare a un cinepanettone in cui, però, nemmeno si ride.
Le scene di Luca Amodio sembrano votate all’obliquo, simbolo della comunicazione indiretta e incompleta che segna i dialoghi pinteriani. Le poltrone, il muro sul fondo, le linee di luce: tutto appare tagliato, monco. Anche i tre grandi specchi, usati spesso come schermo per le videoproiezioni, non riflettono chiaramente la realtà, ma sono opachi e sfuggenti.
Angiolini, Scianna e Biscione non fanno niente di sbagliato: è difficile contestar loro una qualche mancanza “oggettiva”. Reggono bene la scena, sono convincenti e a tratti anche piacevoli. Manca qualcosa, però: non sono loro a rendere un servizio al testo dell’autore inglese, ma anzi è il soggetto stesso che li salva, fin dove può, dalla vacuità e dalla piattezza. Si assiste a un’ora e un quarto di spettacolo che sembra durare tre volte tanto. L’abbonato lucchese, però, non si lascia intimorire e si diletta nell’arte dell’applauso inutile durante il cambio scena (probabilmente solo per il gusto di svegliare di soprassalto il vicino).