Non abbiamo niente di personale contro chi sente il bisogno di pagare un biglietto costosissimo per assistere a uno spettacolo prevedibile e, spesso, ricalcato sul già visto in televisione: a Roma, il problema è trovare un’alternativa. In zona Trastevere, suonando a un citofono, si può entrare nello spazio di Carrozzerie n.o.t., una piccola sala che, con la sua settantina di posti, offre qualcosa di veramente diverso dal teatro mainstream.
Lo spettacolo di Maurizio Patella ci incuriosisce fin dal titolo: Loro – Storia del più famoso rapimento alieno in Italia. Sì, può sembrare l’iniziativa di un club di ufologi per attirare nuovi adepti, ma già dal trailer si capisce che si tratta di arte scenica. Come spesso accade per le buone opere d’arte, il cosa (cioè la trama, l’antefatto) è secondario al come, anche − ed è questo il caso − nel teatro di narrazione. Il pre-testo è semplice: 1978, dintorni di Genova, il metronotte Piero Zanfretta incontra dei grossi alieni che, nei mesi successivi, lo rapiscono una decina di volte. Il caso ha una grande eco mediatica ed è probabilmente il più famoso episodio di abduction in Italia. “Chi se ne frega?”, viene da dire. Erano gli anni dei film sugli alieni (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977; Alien, 1979) e il mondo era pieno di suggestionati che avvistavano dischi volanti in giardino.
In realtà, non possiamo liquidare in questo modo le numerose prove e testimonianze che sembrano confermare questa storia, i cui tratti misteriosi e inquietanti possono essere sfruttati in molti modi. Da una parte, ci sono i reality e le interviste della domenica in televisione, dall’altra, una narrazione ben costruita.
Patella è da solo, in mezzo a scatole di cartone, lampade, pupazzi, soldatini, casette. Quello che a prima vista sembra un monologo esplode in una miriade di personaggi in miniatura a cui l’attore dà voce e movimento: ora è un pastorello del presepe, ora Ken il “fidanzato” di Barbie, ora un robot. Solo il protagonista, il povero Zanfretta, non si vede mai, benché si assista di continuo a episodi che lo riguardano. La scelta è coerente con il linguaggio infantile di tutta l’operazione, sorta di “facciamo finta che…” di un bambino che, nella propria stanza, inventa una storia e la mette in scena con quello di cui dispone. In teatro può essere liberata quella voglia insopprimibile dell’Io bambino che, dinanzi al presepe, vorrebbe dar vita al diorama, muovendo pastori e caprette.
In tale cornice infantilistica, tutto è sensato, come se un’altra convenzione si innestasse su quella già insita nel teatro: non solo crediamo che sia vero ciò che vediamo, ma ne condividiamo il linguaggio. I soldatini spostati a saltelli, la macchina che si arrampica sulle pareti degli scatoloni, le vocine: tutto frutto di quel (non)metodo del gioco, comune a chiunque sia stato bambino.
Il piacere di narrare la storia è pari al piacere di ascoltarla. È evidente, qui, la secondarietà della trama: se ce la racconta così, Patella può parlarci di quando ha montato la libreria in soggiorno. La narrazione è avvincente, coinvolgente, a volte spaventa o fa ridere. Lo stile del racconto (a differenza di quello della messinscena ludica) è simile a quello del più famoso Marco Paolini nell’alternare cronaca oggettiva a momenti comici e paradossali. E, come tutti i bambini che giocano, Patella stesso si immedesima in Piero Zanfretta, l’eroe che esce da quell’universo di giocattoli per prendere vita nel corpo dell’attore.