Arriva a Firenze, dopo il debutto milanese, Una casa di bambola, nuova regia di Andrée Ruth Shammah dal testo (quasi) omonimo di Henrik Ibsen. Bizzarra coincidenza: la stessa pièce debutta anche a Pistoia, nell’allestimento firmato da Roberto Valerio. La doppietta arlecchina era inevitabile, con relativo match.
Testo del 1879, Casa di bambola è un’analisi in prosa del rapporto tra marito e moglie in epoca vittoriana e, più in generale, tratta la condizione della donna al sorgere dei primi movimenti femministi. La parabola di Nora (Marina Rocco) è quella ideale di ogni suffragetta: da una subordinata condizione di costrizione – per quanto benevola – attraversa un momento di presa di coscienza talmente forte da decidere di abbandonare coniuge e prole. Il marito protettivo e docile, l’amico di famiglia segretamente innamorato di lei, il banchiere che la ricatta: tre volti dell’atteggiamento dell’uomo nei confronti della donna sono qui riuniti in Filippo Timi. L’attore umbro, infatti, interpreta i tre personaggi maschili del dramma in modo pacato, senza nemmeno differenziarli troppo l’uno dall’altro: sono le teste di Cerbero, posto a difesa di una mascolinità solo esteriore che – appena perderà il complemento femminile – risulterà irrimediabilmente compromessa.
Mariella Valentini interpreta una vecchia amica di Nora, Cristina Linde, con una forte carica di condiscendenza e superiorità nei confronti della protagonista. Similmente, la vecchia balia (Andrea Soffiantini, en travesti) dispensa lezioni di vita parlando per aforismi. Di conseguenza, Marina Rocco insiste su una declinazione di Nora ingenua e dimessa: per Torvald, è una bambolina da proteggere e da cui pretendere l’adempimento dei doveri coniugali; per il medico amico del coinuge, l’ultima occasione per un brivido sentimentale prima di morire; per Krogstad, il mezzo per assicurarsi il lavoro in banca, ricattando la donna affinché persuada il marito. Cos’altro ci si deve aspettare da una persona considerata poco più di un bel soprammobile o uno strumento atto a perseguire i propri fini? Su questi temi, peraltro non estranei ai recenti lavori di Timi, si concentra la regia di Shammah.
I momenti più tragici o struggenti – quei passaggi, per intenderci, in cui il grande interprete di fine Ottocento avrebbe strappato applausi a scena aperta – sono disinnescati dalla tinta sarcastica che colora l’allestimento nel suo complesso. Il sapiente utilizzo di lunghe pause e ammiccamenti al pubblico mette in evidenza alcuni passaggi troppo affettati e più efficaci (oggi) se letti come bugie che i personaggi recitano con la complicità del pubblico. Specialmente verso la fine – siamo quasi a mezzanotte, chimelhafattofare – si giunge alla completa rottura della quarta parete (già anticipata all’inizio, con Nora che appare in platea e con uno sguardo apre il sipario). Sempre più di frequente, Timi scherza sulla propria balbuzie che, ogni tanto, fa malizioso capolino, oppure ironizza facendo dire a uno dei propri personaggi che era impossibile incontrare uno degli altri due interpretati dallo stesso attore.
Spettacolo gradevole, forse un po’ troppo lungo (non è misurazione temporale, ma di necessità) e molto giocato sull’ammiccamento al pubblico che adora a prioristicamente Timi. Si può, però, contare a prescindere sulla complicità dello spettatore? Senza risposte certe, lasciamo il teatro con questo interrogativo: un’ombra nera come la figura che ogni tanto appare in proscenio a tormentare Nora, altrimenti inebriata dall’allegria della vita borghese.