Uno spettacolo teatrale non dev’esser necessariamente bello. Non questo è lo scopo del gioco o, almeno, non questo l’unico fine cui mirare, l’obiettivo da raggiungere. Anzi. Molte grandi opere d’arte, non da ieri né da oggi, dribblano il bello come fine, preferendogli altri esiti; nella migliore delle ipotesi, a teatro ma non solo, è auspicabile il manifestarsi del necessario, dell’urgente.
Ecco, se Mondo cane, arrabbiatissimo assolo di Daniele Turconi, ha un’inoppugnabile qualità è proprio quella dell’urgenza e, su tal base, si guadagna a priori la piena cittadinanza nella piazza teatrale italiana; anzi, è forse proprio a causa di quell’urgenza, di quel promanare da un nucleo di dolore disagiato, sghembo e abrasivo, che s’approssima a mosca bianca del nostro panorama scenico, fin troppo caratterizzato da allestimenti “senza fatti o soluzioni“, routinari o, ben peggio, tra il paraculo e il furbetto. Lo vedemmo a Lari, la scorsa estate (qui la recensione di Carlo Titomanlio), e come può accadere per le cose che colpiscono senza lasciarsi del tutto afferrare siamo tornati a vederlo, a mesi di distanza.
Non ci eravamo sbagliati: lo spettacolo è pressoché il medesimo, dominato dal percussivo e guappesco hip hop mandato a palla, dal rosa shocking ultratamarro ripreso dai neon orizzontali e dal costume dello squinternato protagonista, ennesima riproposizione del giovane inetto contemporaneo. Storia normale, normalissima di banale precarietà, ma non qui è il punto: non sull’esame di stato evocato dall’incipit, le voci off dei professori a confrontarsi con l’incespichìo del Turconi studente à propos del Fascismo (“e finalmente Vittorio Emanuele III affidò il governo a Mussolini“, sapida perla di politica scorrettezza) , non nella ridda di balle che il giovane rifila a madre e futura ex fidanzata nella disperata ricerca di tener in piedi un castello di carte. Il punto sta altrove, quell’altrove che il teatro ha, o dovrebbe avere, sempre presente, come centro focale del proprio essere: l’invivibilità della vita, la sua ineluttabile, inevitabile impossibilità. Si rida o si pianga, si goda o si soffra, il teatro non può che alludere, direttamente o meno, a quell’altrove indicibile, sua sorgente intima, profonda, irresolubile.
Mondo cane punta lì, nella sua ostentata e barbara incompiutezza, nella violenza pure ingenua della sua forma che contesta la forma stessa, con quel falso finale messo lì, a mezza recita, con l’attore che infrange la quarta parete (c’è forse un che del miglior Roberto Abbiati, per quanto differente sia il contesto) come se si fosse trattato d’un ordinario spettacolino su precariato a amorazzi coetanei. Niente di più ingannevole, per quanto vero: e il fulcro sta lì, piantato nel cuore d’una drammaturgia finalmente davvero arrabbiata (qualcuno potrebbe prendere esempio), una forma non pettinata, che abdica a sé stessa, che punta dritto per dritto all’emozione. Che arriva, perché quando Turconi finge di sospendere, ci crediamo. E quando sta per spaccare tutto, ci crediamo. E quando prende a calci la sedia pieghevole, ci crediamo. E sentiamo.
La bella recitazione, la drammaturgia compiuta, il tirar su palette come a una mostra canina giudicando sulla base di criteri “opportuni” lo lasciamo ad altri. Noi stiamo con chi rischia, chi non ci fa, ma c’è. E Turconi (qui le risposte al nostro questionazzo), che applaudiamo di nuovo convintamente assieme allo sparuto pubblico (troppi colleghi attori, mannaggia) dell’Officina Giovani pratese, c’è eccome. Sino al collo.