Il rosa è una creatura informe e pelosa, un mostro che si rotola in scena e, a un certo punto, sparisce. Inizia così una fiaba un po’ strana, con un cavaliere, una principessa e una cugina che si imbarcano in un’inedita quête alla ricerca della smarrita tonalità cromatica. Il primo a ritrovarla è il cavaliere (Gabriele Capilli): una piuma come cimiero sull’elmo virile e la sorpresa della giacca bianca che, rivoltata, scopre righe color ciclamino. Seguono poi la principessa (Aline Nari) e la cugina (Giselda Ranieri), adolescente oppressa del rosa, ma che, alla fine trova, la sua tonalità, la sua forma e riesce a evadere dalla concezione soffocante del colore ritenuto (convenzionalmente) femminile. La libertà ritrovata non è solo cromatica, è liberazione della forma: gonne indossate come maglie, foulard in testa, pantaloni arrotolati in vita. Un percorso ricalcato sul modello delle favole, in cui la conquista finale è la rottura di una normalità opprimente.
Riferimento dichiarato nel (bel) testo spettacolare di Aline Nari, è Dalla parte delle bambine, libro del 1973 a firma di Elena Gianini Belotti, precursore di quella teoria del gender oggi tanto temuta dai genitori reazionari e condannata persino dal nostro amico performer JM Bergoglio. La pedagoga romana afferma che la differenza tra maschile e femminile, per come la conosciamo, è un prodotto esclusivamente culturale: la famiglia, la scuola, i giocattoli, i vestiti; tutto opera per una distinzione superficiale, coercitiva, in cui, per esempio, il rosa è imposto a un sesso e all’altro vietato. Agevolando un facile consumismo, questa visione basata su un vago determinismo biologico rafforza stereotipi riduttivi che ostacolano l’espressione di qualità individuali che non rientrano nelle presunte aspettative della società. Se alle femmine è negata l’indipendenza, ai maschi è proibita (o sconsigliata) la sensibilità in quanto tratto “femminile”: tale tipizzazione forzata è un ostacolo sociale alla creatività, che esiste solo nell’incontro tra sensibilità e indipendenza.
I molti bambini presenti al Teatro Fabbricone sembrano pronti a recepire il portato etico e politico dello spettacolo: non si instaura un corpo a corpo in cui le certezze del pubblico vengono smontate in scena. Succede qualcosa di più delicato, come se lo spettacolo si sintonizzasse con i bambini a un livello più profondo e basilare: il pubblico adulto può aderire intellettualmente o rifiutare il messaggio di liberazione dagli stereotipi. Sui bambini, invece, è come se l’incrostazione culturale ancora non avesse attecchito del tutto: il messaggio scenico, in loro, risuona autentico, vitale, non come un pensiero “giusto” cui approdare per via analitica.
Ed è, forse, grazie a questa intima connessione che Aline Nari riesce a parlare ai bambini con un linguaggio a cui non sono abituati. Fin troppo spesso, nel teatro ragazzi, si nota una tendenza ad abbassare – in una visione prepotentemente gerarchica – il proprio linguaggio al presunto livello infantile: il risultato, di solito, sono adulti che, ignorando il senso del ridicolo, finiscono per esprimersi come deficienti. Coreografa e danzatrice, Nari non opera una semplificazione del costrutto scenico: tante sono le sequenze di danza, segmenti di pura suggestione che affascinano i bambini come gli adulti. Il pubblico applaude spesso, interviene, risponde alle domande (più o meno retoriche): chissà se il cielo, o il mare, o l’acqua, o le stelle o la PlayStation sono maschio o femmina. Sicuramente il rosa, come ci insegna Baudelaire, e adesso anche Aline Nari, non è (solo) da femmine.
ph. Ilaria Scarpa