Quattro solidi interpreti, attori di vaglia si sarebbe scritto in altri tempi, curricula invidiabili, fasce d’età distinte ma avvicinabili nella finzione drammaturgica. Lo spazio è vuoto: incute timore la nudità ostentata, oscena dell’incavo del Fabbricone, poderoso pachiderma di cemento, cordami, quinte, porte e luci sul fondo. Il teatro nella sua cruda materialità: vita pulsante, che vibra sotto l’occhio vigile e caparbio di quel guardone che è lo spettatore.
Tutto apparecchiato: il pavimento chiaro descrive un ampio rettangolo, ricopre quasi per intero l’arioso ambiente; a destra, un massiccio tavolo rettangolare su “caprette”, lato lungo parallelo al proscenio, sui cui poggiano quattro bicchieri. Una considerevole porzione di spazio è sgombra: sarà l’area in cui intrecciare-snodare le direttrici dei movimenti, rettilinee geometrie a tracciar contorni per una composita lezione di scacchi in quattro quadri, tutti culminanti con l’abbandono-caduta del temporaneo re.
Entrano i comici, vien da dire parafrasando Amleto, uno dei vari spettri aleggianti intorno alla partitura che Pascal Rambert offre agli interpreti di questa Prova che tale si presenta, di nome e di fatto. Anna Della Rosa dà fuoco alle polveri: con furia cieca vive il personaggio recante il suo stesso nome (stratagemma comune ai colleghi), accelerando ulteriormente l’efficace rapidità che le riconosciamo nello scolpir le battute (la ricordiamo con La trilogia della villeggiatura diretta da Servillo, ma anche nello Zio Vanja di Bellocchio). Figura esile, filiforme, mani affusolatissime: tutto rimanda all’esattezza d’una lama pronta a incidere; si muove a scatti, fende l’aria con acuminata destrezza rinfacciando a Luca (Lazzareschi, nella vicenda autore di compagnia), Laura (Marinoni, attrice) e Giovanni (Franzoni, regista) i retroscena morbosi di non si sa quale intreccio professionale e umano.
Realtà e finzione s’impastano con malizia: il tavolo descritto dalla donna, a sinistra, è immaginario doppio del reale cui seggono i personaggi-persone. Anna parla trentadue minuti, né pause né tregua né pietà: una resa dei conti per vent’anni di lavoro, sentimenti, (dis)illusioni. Pure la politica: una biografia di Stalin redatta con pedantesco puntiglio da Luca s’innesta a brani sul discorso principale, diversivo prima spiazzante poi ossessivo ritornello. Ecco Laura: stessa storia, altra prospettiva, carnale e carnosa. Dice del sesso, dei corpi dei due uomini-compagni, tra loro amici. Denuncia il diritto alla voluttà, nel trionfo della pletora sensuale sul controllo intellettivo. Gli altri si muovono sulla scacchiera invisibile della scena.
È come un contest tra rapper in chiave teatrale: alla mezz’ora e al crollo di Marinoni segue la performance di Luca. L’autore difende la riflessività dello scrivere, i suoi tempi dilatati, nella contemplazione d’un collasso strutturale (del gruppo nella vicenda, del testo nel teatro) in cui tutto si fonde, partecipa nella destinazione implosiva. La sua è la parte meglio assestata, forse perché Rambert “si sente” più autore, forse per la recitazione saldissima, laviana (è un complimento). Lazzareschi cede passo e parola a Giovanni, il regista, per l’ultimo dolente lacerto d’accuse e scuse, prospettive e ragioni.
Si soffre, si sbraita, s’insinua, sfruttando le pieghe d’un testo sin troppo tornito, come se l’eccessiva padronanza del discorso si stemperasse in un esercizio tutto mentale, privo del morso necessario al cimento. Il passo tra metateatralità e inerte autoreferenzialità è troppo breve, lo scorgiamo anche nell’adoratissimo (dai teatranti intelligenti) Spregelburd cui ci pare approssimarsi questa Prova, mentre, al calar del buio, ascoltiamo il battimani dei non troppi spettatori circostanti.