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Sette, anzi nove domande a

Stefano Massini

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Io, che sono Arlecchino, faccio poche o nulle distinzioni quando si tratta di intrallazzare con artisti, drammaturghi, attori e quant’altro: grossi o piccini, esperti o apprendisti, potenti o spiantati, poco importa. Quel che preme, in questa sede, è che abbian qualcosa d’interessante da dire e, soprattutto, mi vadano a genio. Ed è con una certa emozione che introduco il presente questionazzo rivolto a Stefano Massini: toscano, toscanissimo (nato a Firenze, 1975), regista, drammaturgo, tra i talenti più attivi degli ultimi anni sia in Italia sia all’estero, approdato da circa un anno, non senza qualche sorpresa, alla carica di consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, ereditando il posto che fu di due signori di nome Giorgio StrehlerLuca Ronconi. Di lui, in chiave artistica, abbiamo già parlato, senza peraltro timori riverenziali nei confronti della sua posizione (ecco la recensione al pluripremiato Lehman Trilogy e a Donna non rieducabile, con Ottavia Piccolo), e continueremo ovviamente a parlare. Nel frattempo, ascoltiamo quel che ha da dire lui, non ringraziando mai abbastanza l’amica arlecchina per un giorno Mariacristina Bertacca che lo ha incontrato in occasione di un bel laboratorio di drammaturgia tenuto a Viareggio e organizzato da IF Prana, gagliarda e intraprendente realtà teatrale molto attiva in Versilia di cui avremo certo modo di raccontarvi altro.
La parola adesso, però, va a Stefano Massini.

Innanzitutto, sette, anzi, nove domande. 

Perché gli spettacoli iniziano alle nove di sera?
Perché durante il giorno si deve lavorare e soltanto la sera si può andare a ragionare, come dire che durante tutto il giorno non si ragiona e la sera si ragiona.

Cosa non dovrebbe essere ammesso in teatro?
Che 2 + 2 faccia 4 e non 5. Invece molto spesso in teatro 2 + 2 fa 4 ed esclusivamente 4. A volte sarebbe bello facesse anche 4,5 se non 5; purtroppo invece la matematica viene rispettata, un po’ troppo.

Che opinione hai del pubblico teatrale?
Il pubblico teatrale non esiste in generale, esiste il pubblico di ogni sera, di ogni teatro e di ogni città, in ogni parte del mondo. Perché il pubblico si crea e si plasma a seconda di chi siede accanto a chi: io credo molto nel transfert laterale, per cui credo che si creino straordinarie alchimie emotive, e non solo emotive, tra le persone, per cui ogni volta accade qualcosa… Bastano due persone per fare un pubblico per cui esistono infinite, matematiche combinazioni di pubblici possibili: ci sono infiniti pubblici. Il pubblico è sempre plurale, “i pubblici”, mai “il pubblico”.

Meglio una platea straripante abbonati o una cantina di pochi appassionati?
Secondo me sono ottime tutte e due, nel senso che la platea piena di abbonati significa che una città, un paese, una comunità, in quantità abbastanza consistente, ha deciso di preferire il teatro all’esperienza familiare, personale, individuale della televisione. E il teatro, in quanto luogo di condivisione e di collettività, penso che sia molto più interessante che non il divano di casa propria, dove ciò che si vive è un’esperienza personale e non condivisa. La cantina di appassionati è un’altra cosa ancora, nel senso che per cantina si intende un luogo in cui qualcuno cerca di sperimentare qualcosa, che poi − ci auguriamo − ambisca a diventare un giorno condiviso da tutti. Il problema è quando questa esperienza meravigliosa e straordinaria della cantina, dove qualcuno quasi clandestinamente tenta una nuova forma di teatro, nasce con l’obbiettivo di rimanere clandestina e non di riguardare tutti; allora non si chiama più cantina ma club esoterico, ed è una cosa che rasenta le logge segrete, che mi sono sempre state antipatiche

È possibile fare teatro senza fare spettacolo?
In ogni momento della nostra vita facciamo teatro senza fare spettacolo, lo spettacolo e soltanto lo 0,01% del teatro che si svolge sulla faccia della Terra e sotto la luce del sole. In ogni momento l’uomo recita, in ogni fase, persino in questo momento io sto recitando. La recitazione è parte integrante della vita dell’uomo: se  l’uomo non recitasse, sarebbe chiuso in manicomio. Vivere nella società significa recitare ed è una cosa non ipocrita, una cosa sana, fa parte del rispetto: non dire a chi ti sta davanti che reputi orrendo il modo in cui è vestito, fa parte del rispetto. La sincerità non è  l’apoteosi dell’onesta, è l’anticamera dell’arroganza. Quindi il teatro è ciò che avviene in ogni momento, lo spettacolo è soltanto la codificazione e la consapevolizzazione del meccanismo del teatro.

Che senso ha, per te, la critica teatrale?
Stefano Massini e Luca Ronconi (repubblica.it)Dipende che cosa si intende per critica teatrale. La critica teatrale è ciò che avviene nella testa di qualunque spettatore, nel momento in cui si trova davanti uno spettacolo. E lo spettacolo che uno spettatore non abbia voglia di criticare è uno spettacolo mal fatto. Lo spettacolo ben fatto esige la critica dello spettatore, perché smuove, aziona dei meccanismi dialettici, e pone delle domande e non delle risposte. Ma siccome penso che la domanda chieda che cosa penso della critica militante, e cioè quella che si chiama critica teatrale, credo che sia uno dei motori del sistema teatrale perché la critica è quell’insieme di persone che al di là dell’esprimere dei giudizi, che è sempre un limite della critica, soprattutto in un momento come questo in cui abbondando i reality show, in cui gli spettatori con gli sms criticano le prestazioni mandando a casa Tizio e Caio, oggi più che mai la critica dovrebbe esimersi dall’esprimere verdetti di pollice retto o pollice verso, come si faceva nell’arena dei gladiatori, chiedendo la morte o la vita del combattente. La critica dovrebbe semplicemente esporre le possibilità, le potenzialità, i dubbi, le certezze e le soluzioni di quei sistemi ricchi di segni che sono gli spettacoli teatrali. Di questo tipo di critica c’è non soltanto bisogno, ma c’è necessario bisogno, perché siamo in un momento storico in cui si ha molta paura di qualsiasi forma di giudizio e per questo se ne abusa, come nei sociale network.

massiniChe spettatore sei? Cosa dovrebbe “fare” un’opera?
Io sono, credo, uno spettatore molto interessato a tutto ciò che è spiazzante, rispetto a ciò che mi aspetto di vedere. Il problema è che il concetto di ciò che non mi aspetto di vedere si muta continuamente, per cui appena una cosa ti sorprende, quella cosa sorprendente crea un linguaggio della sorpresa, che è a rischio di essere adottato da qualcun altro il giorno dopo, con la pretesa di essere altrettanto sorprendente. Si dimentica però che, soprattutto in una società molto informata come la nostra, appena facciamo qualcosa, questo qualcosa crea immediatamente un precedente e di conseguenza diventa già vecchio nel momento stesso in cui esiste. Per cui, come diceva Leo De Berardinis, la sorpresa è l’azzeramento continuo del quadro e la ripresa da zero, dalla cosiddetta tabula rasa.

Un lavoro a cui hai assistito e che rivedresti anche stasera.
Ce ne sono moltissimi. Uno è senza dubbio il Phoenix di Luca Ronconi, scritto da Marina Cvetaeva, che ha costituito un punto di partenza imprescindibile per il mio percorso. Un altro spettacolo che rivedrei con estremo piacere è recente ed è Odissey di  Bob Wilson, un modo spiazzante e incredibile di leggere l’Odissea. Un altro ancora è Gaudeamus di Lev Dodin. E poi senza dubbio ci metterei il Riccardo III diretto da Sam Mendes della Royal Court.

Il tuo lavoro che vorresti far vedere a tutti. E quello che avresti voluto evitare.
Lo sai che ti devo dare una risposta molto strana a questa domanda? Tutti i miei lavori, tutti, hanno avuto almeno una fase in cui avrei preferito evitarli, e tutti i miei lavori hanno avuto almeno una fase in cui avrei voluto mostrarli a tutti. Perché la verità è che, secondo me, i testi teatrali e gli spettacoli teatrali non sono dei monumenti che rimangono sempre uguali a se stessi, ma sono delle guaine che in certi momenti si adattano perfettamente al corpo della società che vuole indossarli, in altri momenti sono totalmente antiestetici e deformano quel corpo stesso. Quindi gli spettacoli sono sempre qualcosa che, al di là dell’essere ritenuti riusciti o meno riusciti, vanno colti semplicemente nel senso di un sistema di segni che possono cambiare. Ricordiamoci che i testi di William Shakespeare per tantissimi anni sono stati considerati indegni, pessimi e retorici, e la stessa sorte è toccata a qualsiasi altro autore che ha visto alternarsi momenti di grande fama e momenti di grande stima, a momenti di grande abominio. Quindi la domanda richiede una risposta complessa.

E adesso… tre risposte a cui formulare la domanda: 

Non è una questione di pura e semplice contrapposizione, quanto, piuttosto, di individuare un’armonia funzionale al contesto dato.
Qual è il rapporto oggi in teatro fra tradizione e innovazione?

In effetti, la figura di Arlecchino, così densa di sfumature e implicazioni sia teatrali sia antropologiche, esprime alla perfezione la dualità del gesto di guardare ed essere osservati, il rapporto profondo e, talvolta, vischioso, tra lo stare in scena e il gettare lo sguardo a ciò che sta oltre.
Come mai la figura di Arlecchino, che ha una storia così antica ben precedente a quella della Commedia dell’Arte, ha in qualche modo permeato di sé tutta la storia della letteratura teatrale? L’ha segnata come una presenza fissa, magari con nomi diversi e maschere diverse, ma l’ha comunque segnata come una presenza fissa e imprescindibile, come un testimone che abbia seguito tutta la storia della letteratura teatrale.

Grazie per la domanda. Un nome secco? Emma Dante.
Qual è uno dei primi nomi a cui hai pensato, quando ti hanno nominato al Piccolo Teatro di Milano, che volevi portare in scena al Piccolo, come produzione del Piccolo?

Stefano Massini (repubblica.it)

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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