Se la cosiddetta ludopatia è diventata negli ultimi tempi materia teatrabile, cioè degna di essere rappresentata (LSDA ha di recente pubblicato uno sguardazzo su Slot machine di Teatro delle Albe, ma altri esempi potrebbero essere menzionati), un motivo dev’esserci. Probabilmente, tra le numerose dipendenze con deriva patologica da cui uomini e donne contemporanei devono guardarsi, essa addensa un crogiuolo di motivi: la crisi economica e sociale a far da sfondo, l’affascinante volontà autodistruttiva e dissipatrice che piega le resistenze di chi ne è afflitto, la facilità con cui può essere rigettata e condannata da coloro che non ne sono sfiorati.
Martina, la protagonista del racconto scenico di Marina Romondia, scommette su ogni cosa fin dall’infanzia. La vicenda, narrata in prima persona ma con scarti impersonali interessanti, si ferma in tre stazioni, tre tappe della sua vita: a 17, 21 e 24 anni. Tre momenti di un inabissarsi di cui lo spettatore intuisce subito l’inesorabilità. Manda in fumo la carriera universitaria, trafuga e dilapida la pensione della nonna con cui vive (interpretata dalla stessa Romondia, con credibile ma stereotipica voce deturpata), schiava delle videolottery, è costretta ad arrangiarsi con lavoretti senza sbocco, fino a un’ultima, esiziale puntata (le transizioni sceniche sono marcate dalle inconfondibili sfumature pianistiche di Arturo Annecchino, impregnate di mezze luci, come a voler infondere un senso ulteriore di fatalità, un presagio di morte).
Che cosa la spinge, che cosa desidera? Il brivido, si dice, il ripetersi di un’attesa palpitante (enumerando le categorie del gioco, Caillois descriveva l’alea come il sublime piacere di abbandonarsi alla sorte). Ma oltre e più ancora dell’emozione c’è nella propensione al gioco un desiderio di controllo, che possa alleviare il caos dell’esistenza, confinare le irregolarità e assurdità del quotidiano nella semplicità perfettamente “regolata” e statistica dell’azzardo.
Avendo messo a frutto un’occasionale esperienza professionale come moderatrice di chat nelle sale bingo on-line, e avendo maneggiato con cura la migliore letteratura sul tema (la sequenza del casinò ha in effetti il ritmo e la sostanza di certe pagine del Giocatore dostojevskiano), Marina Romondia possiede due qualità indiscutibili: prima, una grande sensibilità nella costruzione del personaggio, che è inusuale, nel senso che il profilo tipico del giocatore d’azzardo non corrisponde a quello di una giovane donna, eppure plausibile; e si può immaginare che la direzione registica di Nicoletta Robello abbia contribuito a sagomare una nitida espressione corporea, irrequieta, fatta di stenografiche segnalazioni, più chiara delle parole (viziate da qualche eccesso didascalico).
Seconda, il suo Rien ne va plus è del tutto privo del disgustoso moralismo che l’argomento porta spesso (ovvero quasi sempre) con sé.
Una terza qualità potrebbe essere qui ricordata, la brevità (lo spettacolo non dura più di 50 minuti): ma il sospetto è che questa sia conseguenza di una crescita incompleta più che di un accurato, e sempre necessario, lavoro di asciugatura.
Platea purtroppo semivuota, come la scena (intelligentemente illuminata).