Il teatro può esser cosa semplice, e disarmante. Uno, due corpi in scena, una goccia di luce a carezzarne le forme, una voce che dica: tanto basta per squarciare il silenzio, sfiorare le corde tese dei nervi in ascolto, alla ricerca insistita di quell’anello che non tiene, punto cieco d’esistenze talvolta neppure in apparenza stabili. Evocazione, rievocazione e rigore, quel rigore signorile e al contempo plebeo che la voce di Dario Marconcini imprime nell’incavo del teatro di Buti per la sua ennesima, forse ultima e apprezzatissima ricognizione pinteriana. Recita meno dell’usuale, per l’occasione: due pezzi su sei, affidando le parti leonine della sua composizione scenica a Emanuele Carucci Viterbi e Giovanna Daddi, oltre che al sempre silente Mario Matteoli.
Scena pressoché sgombra sin dalla Catastrofe iniziale: un Beckett a fil di lama, tagliente più che rasoio, nell’allucinata umiliazione d’un uomo esposto su un podio (Matteoli, appunto), alla dispotica mercè d’un regista-burocrate e della sua assistente.
Scritto nel 1982 a seguito d’una mobilitazione a favore del drammaturgo Václav Havel (successivamente ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo della Repubblica Ceca), si tratta dell’unico testo beckettiano che possa essere ricondotto a una vaga dimensione politica. Il tempo d’un buio e via con Pinter: Carucci Viterbi si rende protagonista del falso dialogismo di Monologo, estenuata conversazione a uno costantemente rivolta in direzione d’una sedia vuota; l’absurdismo si colora di toni quasi patetici, mai del tutto incrinati dal paradosso. E, ancora, si scorre a Voci nel tunnel (protagonista una Daddi al solito maestosa), il delirio grottesco di Conferenza stampa (ancora un sinistro Carucci Viterbi dai tocchi quasi chapliniani), Il Nuovo Ordine del Mondo e la chiusura, in conclamata bellezza, di Notte. Quest’ultimo atto unico vede il ritorno in coppia di Marconcini e Daddi, nuovamente sintonizzati sulle frequenze che furono di Silenzio, Voci di famiglia e il completo trittico dei Memory Plays, che già comprendeva questo titolo (eccovi le recensioni già pubblicate: Titomanlio, Titomanlio e Cecconi). Seduti a un tavolo, l’uno di fianco all’altra, un uomo e una donna rievocano un incontro romantico avvenuto anni prima: non si guardano, neppure s’intendono del tutto. La macchina del ricordo s’inceppa, a render evidente l’ineluttabile solitudine intrinseca a ogni esperienza umana, anche (e soprattutto) quella che vorrebbe metterci nella più intima comunicazione con l’altro.
Smaglianti, Marconcini e Daddi trovano in questo dialoghetto tarlato il passo giusto, e la quadratura per un finissimo allestimento d’accumulo e abbinamento, che nella sostanziale eterogeneità dei materiali trova un’ulteriore ragione d’essere. Testi brevissimi, lancinanti, così diversi tra loro, eppure attraversati da un’unica e omogenea tensione, un’inquietudine latente e grumosa che contagia un pubblico attentissimo e, per una volta, ottimamente composto.
Restiamo dell’opinione, non condivisa dai padroni del vapore, che certi lavori ancorché non facili (questo Pinter/Beckett è d’altra pasta, in termini di leggibilità, rispetto al Minimacbeth ammirato il mese scorso) siano piccole perle che meritano riguardo (e distribuzione): continueremo a scriverlo, continueranno a ignorarci (quando va bene). Del resto, siamo solo arlecchini, disarmati, amanti di un teatro disarmante.