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Su Video e Identità in “MDLSX” di Motus

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Questo testo non è una recensione, ma la stesura di alcune riflessioni sullo spettacolo MDLSX dei Motus, protagonista Silvia Calderoni, analizzando l’utilizzo che viene fatto delle immagini video in scena.

La performer/narratrice spesso dà le spalle al pubblico, mentre in video si osserva la ripresa live della sua faccia o di ciò che solitamente starebbe “di fronte” allo spettatore. La faccia, il “frontale” è quello che dà appunto “volto e identità” alla persona e ai personaggi, sulla scena come nella vita. Ed è singolare che proprio l’identità, tema centrale dello spettacolo, sia qui affidata alla ripresa video. Si crea così un doppio svelamento o un doppio mascheramento?
Quando un performer è sulla scena diventa comunque “personaggio”, anche se non vuole. E, anzi, la sorpresa di vedere nel “cerchio magico” della scena teatrale un performer che è “se stesso” fortifica ancora di più la sua valenza di “personaggio” proiettandone la sua “credibilità” direttamente nella sfera extra teatrale del quotidiano.

Stessa cosa accade quando si appare all’interno dello schermo video: non si è “reali” ma rap-presentazione della realtà. Quindi, quando il video è in scena dovrebbe rafforzare l’elemento di illusione realistica di ciò che viene inquadrato segnalando che ciò che si vede è, appunto, una rappresentazione del mondo e non il mondo. Inoltre, con il video si mette in crisi la soggettività del punto di vista, tipica del teatro: ogni spettatore vede una cosa diversa in base al proprio posizionamento in platea. Il video invece mostra a tutti la stessa cosa indipendentemente da dove si è seduti, oggettivandone la visione, riunendo in un solo punto di vista le diverse visioni di ogni singolo. Gli spettatori diventano il pubblico, riunendo le diversità dei propri corpi in un solo grande occhio.

È singolare che in uno spettacolo che parla di una crisi di identità, che vuole mettere in discussione i confini della suddivisione in generi sessuali, e che dovrebbe segnalare il diritto alla diversità di ogni singola persona, si utilizzi l’occhio collettivo e dogmatico del video come prova di realtà. Come messaggero di verità. Come testimone oggettivo di qualcosa di vissuto realmente. E questa pretesa di “realismo” viene annunciata fin dall’inizio quando si mostra la bimba che canta al karaoke. E ribadita alla fine dello spettacolo con la ripresa “amatoriale” del balletto domestico nel salotto di casa: genere tipico di “cinema del reale”.

mdlsx_motus_Photo_ilariascarpa-VTSuona “strano” questo inserimento così massiccio del video in una situazione teatrale che per sua stessa natura mette gli spettatori di fronte al fatto che ognuno di loro è diverso dal proprio vicino. In teatro si sperimenta direttamente, con il proprio corpo, la condizione di essere diversi: è un dato di fatto e non un diritto da conquistare. E forse questa condizione è una delle ragioni della crisi, e del valore, del teatro. Perché in un mondo dove la percezione dell’immaginario condiviso attraverso gli schermi tende appunto a omologare, oggettivare, il punto di vista (scelto da un regista, una persona-occhio-macchina), il fatto di percepirsi diversi, nella sala teatrale, crea un senso di fastidio giustificato dal fatto di trovarsi nelle ultime file o troppo di lato o troppo in alto.
Così si pensa che lo schermo, oggettivando la visione uguale per tutti, sia più democratico. Ma ci si dimentica che quel “democratico” punto di vista è invece imposto dal gestore della video-camera. E che, quindi, accettando quel punto di vista, si rinuncia a una vera esperienza personale, diversificata, per assumere quella omologante del regista di turno. (Ed è quella scelta visiva, quella visione personale, che andrebbe ogni volta criticata e discussa piuttosto che la storia che viene raccontata e i comportamenti dei personaggi rappresentati).

Questa omologazione della visione comunque non è obbligatoriamente negativa. Anzi, può essere utile e interessante quando contiene degli elementi di relativizzazione, di autocritica e di smascheramento del meccanismo percettivo. Quando insomma mette in discussione il proprio valore di realtà e di assolutezza. Ma questo non sembra accadere in questa performance. La video-visione non viene mai criticata a meno che non si dia per scontato, in partenza, che comunque è sempre finzione. Ma se così fosse verrebbe vanificato tutto il valore del racconto, che intende invece essere onesto e coinvolgente. Anche se mescola fatti della vita reale della performer con brani di un romanzo (autobiografico?) utilizzati comunque per dare spessore a un’esperienza vissuta in prima persona.

mdlsx_Motus_LaMama2Ora, la questione è che si racconta di un “dramma” esistenziale centrato sulla conquista della propria identità. Scoprendo che l’identità proposta, imposta, dal contesto sociale è insufficiente o comunque falsante. Non ci si riconosce in come si viene comunemente rappresentati. Il video ne è testimone e documento. E questo disconoscimento è vissuto, giustamente, come violenza verso la propria persona. Il “dramma” che si vive è tra l’identità rappresentata dalla propria immagine e quella sentita e vissuta nei comportamenti sessuali e affettivi: scollamento tra immagine e esperienza vissuta. Il soggetto che “appare” si comporta in maniera diversa dalla convenzione auspicata e considerata giusta perché “naturale”.

MDLSX-Motus-©-Ilenia-Caleo-9Ma se invece si pensa che il “naturale” consista proprio nella moltiplicazione delle differenze, anche oltre le apparenze, il suddetto drammatico scollamento esistenziale svanisce. Allora mi domando: può svanire anche se si trova una “apparenza” in grado di rappresentare il comportamento di cui ci si sente portatori? Magari rischiando il rifiuto sociale nell’affermazione di una giusta rappresentazione di se stessi. Rifiuto generato comunque dalla volontà di non voler riconoscere ciò che “esiste” perché legati a un modello precostituito. Ma tale rifiuto è facilmente eludibile e comunque vanificabile se non si crede nella validità di modelli precostituiti, ma nella realtà della propria esperienza. Così il “dramma” diventa più politico che esistenziale in quanto si vorrebbe comunque essere accettati anche da chi non condivide il proprio punto di vista.

Forse il nodo sta proprio qua: per sentirsi accettati è necessario creare continuamente nuovi modelli di rappresentazione di tanti diversi se stessi? Oppure proprio il fatto che ognuno è modello di se stesso (quindi non replicabile e tanto meno rappresentabile) genera comunque un conflitto tra ciò che sentiamo di essere e l’immagine che pretendiamo ci debba rappresentare? La domanda è attualissima, oggi che i modelli sono dati da immagini che “replicano” la nostra apparenza, attraverso apparati tecno-visivi come foto e video, che in realtà non riescono mai a raccontare la nostra anima ma, appunto, solo una “apparenza” comunque inconsistente e certamente irreale.

Quindi il “dramma” sta nel tentativo di creare un’immagine irreale capace di rappresentare la realtà del nostro essere. Tentativo davvero paradossale e destinato evidentemente a fallire.
Per questo trovo “distraente” affidare al video, specialmente in uno spettacolo come questo, il compito di confermare, documentare, il diritto all’esistenza di una diversa identità. Perché il risultato finale che si rischia di ottenere è una parodia addirittura controproducente, che riconosce come valore positivo, come dato di fatto inconfutabile, lo spropositato valore identitario dato all’immagine e che questo sia naturale e quindi non modificabile. Come i modelli precostituiti che ci vengono imposti.

Ma a tutto questo il pubblico pare proprio non farci caso…

MOTUS-_-mdlsx-_-©Nada-Zgank

 

Giacomo Verdehttp://www.verdegiac.org
Autista, facchino e trovaroba, sopravvive occupandosi di teatro, video e arti visive dal secolo scorso. Riflettere sperimentando ludicamente sulle mutazioni tecno-antropo-logiche in atto e creare connessioni tra i diversi generi artistici è la sua costante.

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