Diavolo d’un Kaemmerle. Non il demone briccone visto alle prese con l’Extravergine Goretti, in Naturalmente zoppica un po’, terragna saldatura tra Bernard Malamud e Jiga Melik. Andrea è un “diavolo” latu senso, ché, da maschera, vince sempre le scommesse piazzate, a prescindere dal coefficiente di rischio: si tratti di farsaccia slabbrata, pensiamo a Lisciami coi Gatti Mezzi (ne scrivemmo assai bene senz’affatto esser fans del pisanissimo duo, anzi), di repêchage culto e verace (lo Zona torrida che Donato Sannini scrisse “per” Carlo Monni, riportato in scena due anni fa sempre con Goretti) o di assolo comico, il fintoslavo più vero d’Italia riesce sempre a sfangarla.
Si prenda Balkanikaos: che dire mai d’un allestimento quasi ventennale, 750 (settecentocinquanta) repliche tra teatri, piazze, locali, strade, a mescolar idiomi e suoni, lacrime e sghignazzi, nelle cristalline risonanze d’un talentaccio che, ogni volta, non tradisce. E non è certo merito della drammaturgia: o forse sì, a patto di non concepirla come precipua traslazione verbale del da dirsi o da farsi in scena, quanto, piuttosto, quale concreta quanto ineffabile consistenza del discorso teatrale, ivi compresi i suoi endemici smottamenti, le lievi sfarinature, il percettibile incrinarsi, mai dannoso, della struttura, che può persino impreziosire una performance.
Scortato dai fedelissimi Ras Kornika (violino), Ivo Andreevic (fisarmonica), Branca Ceperac (contrabbasso) e Jiviasha Ivanova (clarinetto), Kaemmerle, volto pittato, occhi e naso vermigli, si cala nella parte del buon soldato Slava Svejik, per un sincretico e irresistibile viaggio a ritroso nella penisola balcanica. Tutto rigorosamente falsoe, quindi, vero: è teatro, trionfo del posticcio, luogo peculiare in cui la verità per esser tale ha da calzar fogge di menzogna.
Serata strapaesana, con la neoeletta Sara D’Ambrosio a salutar timida gli astanti prima della recita: spodestato dalla carica di primo cittadino, dopo vent’anni, l’improbabile sceriffo precedente, ecco prestarsi a Slava il destro per evocar comicamente i residuali lacerti del comunismo reinstaurato in loco. Quel comunismo che la picciola compagnia in scena (diafane maschere calzate a celar i volti) avrebbe conosciuto nelle declinazioni intercorse sulla dorsale jugoslava, tra Balcani e Carpazi.
Mirabile esempio di clownerie cialtrona, agrodolce, quella di Slava/Kaemmerle: principesca la disinvoltura con cui cesella facezie facilotte, mai mancando l’alternanza con minute perle (un’intonazione, un ripiegamento del corpo), giocando con la voce e sfuggendo puntualmente l’effettaccio. In ciò, la sua mirabilissima destrezza: semplicità ricercata e, al contempo, naturale, che permea la performance di un’aura preziosa e malinconica, che s’attaglia al (con)testo, traendo linfa dalla situazione del qui e ora scenico.
Così, l’attempato e gagliardo spettatore barbuto in camicia rossa diviene “Garibaldi”, spalla ideale del nostro, e la procace spettatrice dal profumo irresistibile riceverà promesse d’eterno amore. Nel mezzo, i brani dell’orkestra, in andamento parallelo col tutto, non fosse per quella danza immota e percussiva (la pancia di Kaemmerle a farsi pelle di tamburo): tutto semplice, e largamente all’improvvisa. Con la grazia inusitata, qualcosa che ci vince, convince e avvince, d’un far teatro antico quanto il mondo e che, nella caotica, sapiente menzogna, scova la sua diabolica onestà.