Li troviamo quasi dove li avevamo lasciati, un anno fa. Sui binari. Allora, un calibrato intrico in stazione, a Pistoia, tra teste di piccioni, inquietudini apocalittiche e sghembi personaggi a intenerirci il cuore. Erano e sono Gli Omini, realtà tra le più vivide nel nostro panorama teatrale, recentemente premiati con merito per una pluriennale militanza sul campo.
Li ritroviamo a Castagno, sulle ferroviarie pendenze per Porretta, la verzura d’un bosco che castagni non ha. Preso al volo il treno (la stazione pistoiese chiude alle 20.30!), è spettacolo pure la breve tratta su rotaia. Seminuovo il regionale Jazz realizzato da Alstom, due anni fa: remoto il tempo in cui la Breda era industriale orgoglio italico, e Pistoia ne ospitava uno dei principali insediamenti, quartiere operaio (il Belvedere) incluso. Il vagone, anonimo quanto colorato, d’apparenza confortevole, sembra parodiare l’interno di certi aerei, con schermi a offrir informazioni sul viaggio e immagini in diretta: inizia La corsa speciale.
E ancora ritroviamo Francesca Sarteanesi, Francesco Rotelli e Luca Zacchini (Giulia Zacchini è dietro le quinte), nella loro dimensione prediletta, l’indagine sul campo, a contatto con le persone, lavoro di scavo e distillazione che li ha sbalzati tra periferie montane e fermate ferroviarie, per un teatro dai tratti minimalisti che non lesina laceranti aperture, a rivitalizzare gli oggetti selezionati in un discorso scenico d’efficacia talvolta atroce.
Una tribunetta ci accoglie: a destra, rotaie inghiottite dallo scuro d’una galleria. Per fondale, lastre in pietra. Qualche albero, nel pigolio di lampadine che cela più che mostrare: appare un grosso pennuto (il tema avicolo permeava pure lo scorso lavoro), becco pronunciato e ricurvo, in attesa di questo pubblico vacanziero, vezzeggiato dal peculiare contesto. Saluta, voce virile, centrata. Parla, e nulla rivela, a tener per sé il più e il meglio; si rivolge, dietro sé, a Buddy, interlocutore destinato al mistero. Non ci stima, nel suo umorismo livoroso di risolini finto-accomodanti: siamo, ha ragione, così umani, imperfetti e inerziali, che vien da sghignazzare. Per non piangere. Tuttavia, consente alla notte di mezza estate d’animarsi: ecco le presenze che sostavano nel buio, anch’esse in attesa.
Storie raccolte, traslate, riscritte, trasfigurate. Dal particolare di matti ed emarginati all’universale di un’umanità che matta è per assunto, se n’avveda o meno. La comicità amara e dolente s’impasta alla spigolosa recitazione di Sarteanesi, agli strappi nevrotici di Rotelli, agli improbabili poeti di Zacchini, in un quadro di slabbrata comédie humaine, a mescolar riso e pianto, quasi rendendo un’impossibile giustizia, da smisurata preghiera, che redima grazie al ricordo. Parlano, ma non si parlano, questi strambi outsider: paralleli all’infinito come i binari attorno cui liberano le loro parole. S’incontreranno mai? Lecito dubitare. Fari sulla tribuna: una coppia attempata allaccia le labbra in un bacio. Sono i passeggeri inquadrati dal display del vagone; epifania quotidiana che potrebbe farsi racconto?
Parche inquiete e insondabili, gli uccelli si fanno tre, riconsegnando al buio le storie, e la minuta stazione appenninica. Impossibile non chiedersi quanto la cornice silvestre differenzi questo progetto dal precedente: il lavoro sulle narrazioni tradotte in scena, comicamente agrodolci, è non poco similare. Ci scusiamo per il disagio ci era, però, subito apparso “oggetto” d’inusitata potenza, a incidersi nel cuore; eppure, non diremmo che questa corsa sia ripetizione inerte del modello. Il dubbio che sia, talvolta, il nostro stesso sguardo da mettere in questione (la critica come attualistico vaglio di novità, aderente a un sistema che “pretende” un capolavorino − Andrea Cosentino dixit − all’anno) è un’opzione da considerare, sempre. E così facciamo.