Il teatro sa essere irritante.
Il teatro d’estate, poi, con quel suo senso di provvisorietà crepuscolare, di approssimazione (prove aperte, studi, laboratori, debutti inadeguati con cui barattare “residenze”), di promozione turistica (il connubio tra riscoperta dei classici e riscoperta del paesaggio; il connubio tra addetti ai lavori, giornalisti e spettatori capitati lì per caso, che fanno foto a ogni marmo scolpito, a ogni stemma stinto), sa essere ancora più indisponente. Lo scriveva De Monticelli in un pezzo di oltre quarant’anni fa, e rileggendolo ho quasi sussultato dalla soddisfazione.
Prendete Roberto Latini: il suo magnetismo, il suo carisma, la sua intelligenza creativa, le sue qualità vocali – doti invidiabili e invidiate da molti – ne fanno uno dei migliori attori della sua generazione, nonché l’erede più credibile di Carmelo Bene, tra i tanti che, per autodeterminazione o convincimento altrui, si contendono i lasciti dell’artifex di Campi Salentina. Uno come Latini farebbe la fortuna di molti giovani scrittori dei nostri tempi (ah, se solo ci fosse un modo per dividere il repertorio dalle sperimentazioni, e concedere a entrambi i mezzi adeguati per raggiungere le platee!).
Invece sceglie di misurarsi con il testo più intollerabilmente noioso di Pirandello, I giganti della montagna, in cui il mito dell’arte per l’arte brucia e si consuma nella vicenda della contessa Ilse: divenuta attrice per comunicare l’opera sublime di un giovane poeta suicidatosi per amore, l’esaltata gentildonna conduce sé e i suoi esausti compagni, consorte compreso, al nomadismo, trovando rifugio in una villa infestata, abitata da individui non meno visionari. Opera enigmatica e testamentaria, per di più con il fascino dell’incompiutezza (che ha spinto e spingerà teatranti ambiziosi a cercarvi ulteriori sensi riposti), opera che – parere personale – solo la lettura privata può rendere sublime, riaccendendone le mille scintille poetiche.
Dopo aver già presentato il lavoro integrale nei mesi scorsi, a Lari Latini vi appone la dicitura Radio edit, volendo indicare che si tratta di versione “alleggerita”, nella durata e nell’impegno scenotecnico, rieditata per il consumo estivo, appunto. E la propone, allo sparuto pubblico salito al calar del sole sul cortile del Castello dei Vicari, come un esercizio di carmelobenismo postmoderno: montaggio di scene, molte voci per molti personaggi (maschere vocali riverberate, distorte, riecheggianti; solo a tratti si può godere di quella “al naturale”); a far da impalcatura musicale, la partitura di Gianluca Misiti (lo stile è quello di un disco della ECM), pienamente compenetrata nella ricerca sonora di Latini. E non può mancare un’aria di melodramma a chiudere (il sole è andato giù): Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore, Una furtiva lagrima, Enrico Caruso.
Riassumendo: un attore di oggi che recita, alla maniera di un grande attore di ieri, un dramma scritto da un autore dell’altrieri, che narra le chimeriche avventure di attori disperati che smaniano per recitare la tragedia di un poeta incompreso (ovvero un dramma dello stesso Pirandello).
Un maelstrom autoreferenziale che si ama o si odia, precipitevolissimevolmente.