Si fa un gran parlare, negli ultimi tempi, di cosa possa dirsi lecito (!) e ammissibile in teatro, cosa sia artistico e cosa osceno (dev’esserci opposizione?), neppure fossimo riprecipitati per incantamento all’epoca del professor Croce: non che il problema sia peregrino, ma, forse, la questione rischia d’esser mal posta.
Al contempo, l’estate festivaliera appena trascorsa ci ha spesso costretti a una riflessione profonda (non fa per noi, lo sappiamo) su cosa possa dirsi contemporaneo e quali possano essere intenti e limiti d’una ricerca teatrale che, pur contando su innegabili qualità e discutibili ostacoli produttivi, rischia sovente d’impantanarsi in paludati pelaghi autoreferenziali.
È, quindi, un gran bel sollievo assistere a lavori in grado di abbinare un’interessante e non “consueta” interpretazione della convenzione scenica, una leggibilità “aperta”, ma non banale, nonché la capacità di porre un problema con intelligenza, senza il minimo moralismo.
Bingo.
La principale sala del Magnolfi nuovo vuole il pubblico disposto lungo tre pareti: al centro, spazio sezionato da strisce a delimitare, lo capiremo, le stanze d’una casa stile Dogville. Il lato col boccascena del teatrino ospita un televisore dinanzi al quale siedono due attori neutrovestiti: in onda una celebre sequenza da tv spazzatura, una maga che, subìto un greve scherzo telefonico, prorompe in un improbabile (e a suo modo comicissimo) anatema. Si spegne l’apparecchio. Lui e lei descrivono con gaia normalità lo spazio della casa: rifugio, nido, ventre molle e protetto dagli urti dell’esterno. Tutto normale, nell’ostentata serenità dei quadretti da réclame, e dunque inquietantissimo, sino al profilarsi dell’elemento distorsivo, i vicini chiassosi, maleducati, arroganti. Lui e lei diventano, allora, Olindo Romano e Rosa Bazzi, iconica coppia al centro d’uno dei più efferati casi di cronaca degli ultimi anni, la strage di Erba. I momenti antecedenti il massacro (quattro uccisi, di cui un bambino, solo un superstite) sono prima illustrati (il testo è tratto dalle deposizioni giudiziarie), poi ripetuti, quasi inscenati. Stop.
Ci spostiamo nella stanza accanto, dominata da una cattedra. L’attore, Tindaro Granata, muliebre camicia d’un vistoso azzurrino kitsch, adesso è la maga di poc’anzi: stesse parole, stessi insulti, stessa replica, nella terrifica invocazione degli antichi. Si ride. Lo sghignazzo cresce quando, al telefono, prorompe la madre dell’artista il quale, frantumando l’azione scenica, risponde per poi uscire.
Torniamo nella prima sala, dove troviamo Granata e Caterina Carpio (stabile e penetrante in gesti e toni) seduti a parlare tra loro della performance. Cosa è lecito mostrare quando si portano in scena fatti desunti dalla cronaca? E in quale modo è giusto mostrare?, ben giocando sulla coincidenza lessicale del termine mostro, già evidente nel titolo della performance.
Granata si concentra sul legame carsico tra le sequenze prese in esame: la scelta compiuta, su diversi presupposti ed esiti, dalla maga e dalla coppia nel fare del male, quando la violenza e il crimine assumono i tratti della soluzione di un problema. La sequenza tv, nota l’attore, è relativa a un’era precedente ai social media, ma ne preconizza l’urgenza, da parte di chi subisce un’aggressione, nel farsi giustizia al cospetto di un pubblico (in questo caso, gli spettatori), quel dato incrementale dovuto alla dimensione pubblica di certe dinamiche. Ancora stop.
I due attori si rivolgono al pubblico, invitando chi lo desiderasse a uscire: l’ultimo quadro sarà, infatti, la messinscena del video di sesso amatoriale le cui conseguenze, qualche giorno, hanno portato la sua protagonista al suicidio. Silenzio. Nessuno si muove. È sufficiente l’accenno all’azione, parzialmente descritta, che l’esperimento sociale può dirsi conchiuso. Applausi, applausi e applausi. Li sottoscriviamo.
Con una postilla.
Le magagne del teatro italiano portano a celebrar, da tempo, nozze con fichi secchi, e càpita d’assister a una performance presentata quasi alla stregua d’uno spettacolo “vero e proprio”. Vero è che, quando l’idea è buona, ficcante, ben sviluppata, poco importa cosa sia quel che viene offerto: ne è valsa, eccome, la pena. Là dove l’unica pena reale è rappresentata dal fatto che la sala gremita e plaudente era quasi del tutto composta da addetti ai lavori, artisti, critici: giusto che ci siano pure loro, ovvio, ma la sensazione da torre eburnea è sempre più forte e, francamente, venefica.
Che questo Mostro possa farsi vedere, e tanto: sono lavori come questo che possono non “scacciare” spettatori curiosi, magari ancora non preparati all’esoterismo di altri, pur validi, artisti della scena.