Il Cimitero Militare Germanico al passo della Futa consiste in una muta distesa di lapidi e prati scoscesi: trentamila corpi e più, raccolti dopo il 1945. Monumento difficile. Nomi scolpiti (non tutte le tombe li riportano), seguiti da grado e data del decesso: quanti ci credevano?, vien da chiedersi, mentre il sole ferragostano ci scorta verso Macbeth essere (e) tempo, ultimo lavoro di Archivio Zeta, e primo confronto del gruppo (ossia Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni) col Bardo, a quattro secoli dalla morte.
Gli spettatori percorrono con buon ordine i sentieri tra i sepolcri: lo spettacolo è, a suo modo, già iniziato dalle imperative raccomandazioni d’una collaboratrice della compagnia, assertiva e sorridente; la performance in itinere chiede ordine e controllo del vociare, tra una stazione e l’altra. Pur capendo, sorridiamo: il teatro è (anche) il regno del brusio che la contemporaneità, con qualche ragione, cerca d’irregimentare. Nondimeno, è un buon inizio, pensiamo, rammentando con affetto il portiere del castello macbettiano che s’immagina guardiano infernale.
La chiave filosofica della lettura di Guidotti e Sangiovanni è ben palesata nel titolo, riecheggiante il principale contributo di Martin Heidegger: nel rispetto del testo, la cruenta vicenda scozzese si traduce in un Stationendrama, ieratico, grumoso. Tre pesanti cappucci neri ci accolgono: una strega (Giuditta Mingucci), Banquo (il solido Stefano Braschi) e Macbeth (lo stesso Guidotti); li raggiunge Duncan (Ciro Masella), con altre figure, mute, e un bellissimo cane, Oscar.
L’en plein air si riverbera nella conseguenza d’una recitazione poco realistica, spinta per volumi e intonazione, ampia nei movimenti, elementi che il dettato può comunque contemplare. Punteggia il tutto una partitura musicale aguzza (a cura di Patrizio Barontini), che i fiati e le percussioni di Gianluca Fortini e Luca Ciriegi trasformano in un panorama sonoro sospeso e inquieto.
Il tempo è la chiave dell’arrovellata riflessione sul testo: le profezie (Macbeth che, generale, diverrà sovrano) innescano l’atto criminale (il regicidio, sobillato dalla Lady), in uno slittamento che si rovescia nell’ineluttabile trappola del rimorso, e nella carneficina finale. L’ossessiva oscillazione dei piani temporali s’assimila agli ingranaggi della macchina teatrale: tutto è successo, benché debba ancora accadere, tutto accadrà, perché già successo. On n’échappe pas de la machine, e il teatro non può che farsi rito e coazione, ripetizione esiziale d’irredimibile dolore.
Si risalgono i gradini: altre tombe, boschi all’orizzonte. La petrosa struttura centrale, pesante e aguzza, è Inverness, poi Dunsinane: elementi in metallo, una scala, e un ampio cerchio abitato da una tela che diviene mantella, ripropongono simbolicamente i temi di sincronia e sequenzialità. Guidotti (colpisce la somiglianza con Orson Welles, autore anch’egli d’un memorabile Macbeth filmico) è intenso, inchiodato al destino che l’attende oltre il misfatto: gli fa eco la Lady di Enrica Sangiovanni, irrealistica, quasi straniata.
L’impressione è che non nell’esecuzione attorica si debba individuare il cuore di questa ricerca, quanto nella focalizzazione tutta ossessiva, mentale, su tempo e tempi: quello sovrannaturale e liminare delle streghe, quello “regale”, in apparenza eterno, di Duncan e quello lineare, del momentaneo caos introdotto da Macbeth, “uomo nuovo” e tiranno destinato alla sconfitta. Non v’è felicità, né vi può essere, nel delitto: il nuovo re, per difendere un trono ottenuto col sangue, altro sangue dovrà spargere, sino a veder versato il proprio.
Lavoro composito: sarà interessante rivederlo nella scatola di uno spazio più convenzionale, allo stesso modo degli allestimenti di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza: nella fattispecie, l’occasione sarà offerta nei prossimi giorni dal debutto nella stagione del Teatro Studio Mila Pieralli di Scandicci.
Al netto di costumi convincenti (tuniche e cappe dominate dal nero) e d’un evocativo piano sonoro, la dimensione indoor potrebbe concedere la possibilità di porgere il testo in modo più sfumato (e ricco), acquistando in leggibilità da parte di chi, per quanto possa risultar strano, poca dimestichezza abbia con un classico come l’impronunciabile tragedia scozzese.
Applausi sul far del tramonto.
[Vai all’arazzo sullo stesso spettacolo realizzato da Elena Modena]