Rovesciare il teatro, o quasi, rimettendo in gioco la sua prima e fondante dimensione essenziale, quella dello spazio: è per, con e dentro lo spazio che, infatti, prendon vita i corpi, s’espandono i suoni, si palesano i colori, ora strillati per un’illuminazione violenta, ora tenui, sfumati dal dosaggio attento e l’applicazione di filtri cromatici. Dallo spazio che è il teatro promana l’altro impasto ineludibile dei drammi della scena occidentale, quello composto da relazioni, rapporti di forza, attriti; sempre mutevoli, pronti allo strappo, come l’animo umano cui parrebbero rimandare.
Nella visione del teatro come dispositivo da de e ri-strutturare partendo proprio dalla spazialità stanno pregio e coerenza del lavoro con cui Renata Palminiello ha investito la più bruciante delle tragedie scespiriane, quella fiaba nera rispondente al titolo di Riccardo III. E poiché, in scena come nella vita, l’autentica fedeltà necessita sempre d’un qualche tradimento, per meglio cogliere l’ascesa del deforme usurpatore si risale la china dei titoli del drammaturgo inglese, campionando sequenze da Enrico VI a trasformare la presente messinscena in La tragedia di Riccardo III.
Accediamo ai palchetti dei primi due ordini: la platea ingombra è propagazione del palco, senza soluzioni di continuità: l’idea ricorda un bel Čechov di Silvia Pasello visto a Buti anni fa. In simile campo aperto, minimi arredi: tutto affidato agli attori, le loro traiettorie, fisiche e simboliche, le parole a scolpire storie e relazioni. L’incessante andirivieni (benché breve, la storia di Riccardo è ricca di caratteri) popola il teatro tutto: non risparmia foyer e corridoi lo scalpiccio ostentato, ossessivo, a farci sentire attorniati, come in trappola all’interno d’un brulicante maniero quattrocentesco.
Il ribaltamento prossemico investe nel profondo una recitazione di ostensioni rotonde, sottolineature a tratti smaccate, volutamente distanti da un naturalismo qui senz’altro fuori luogo. La composizione del cast, analogamente al lavoro nel complesso, coinvolge un’articolata serie di realtà locali, giovani e studenti, all’opera in scena e fuori, encomiabile sforzo d’un teatro che vuol respirare con la città, intercettandone le forze, accompagnandola nella vita comunitaria, sebbene questo possa suonar utopico in tempi come i nostri. Corrono, sbattono, tramano e s’armano, le pedine dell’orditura infame di Richard (Gabriele Reboni), nugolo di figure destinate al sempre impressionante macello conclusivo. E che impressione quelle luci sparate (unica trovata tecnologica dell’intero costrutto) a coronare il finale, col protagonista, impossibile non amarlo, in cerca di sella ad affrontare, da vivo, la morte.
Slacciata dall’interpretazione psicologistica spesso incombente sui testi del Bardo, la tragedia si dipana e sprigiona nell’antro dilaniato d’un teatro qui più che mai si lega alle esperienze di Palminiello con Thierry Salmon.
Lo smontaggio investe ogni certezza depositata nella memoria, rendendo una materia viva, di corpi e volumi pulsanti, al di là della testualità originaria, al di là della recitazione più o meno puntuale (Massimo Grigò, Enrico IV poi Hastings, è comunque garanzia assoluta), al di là di tutto quel che si crede, a volte, debba essere teatro.
Certo, questo bel lavoro, con ulteriori limature e un organico ancor più qualificato, potrebbe non faticare a guadagnarsi il suffisso capo, ma il senso di certe pratiche non necessariamente è quello di licenziare “prodotti” perfetti, quanto di dare vita a operazioni artistiche di senso. E in questo caso, non si può che applaudire, e tanto.