Il recital: genere nobile della performatività novecentesca, cimento riservato ai grandi eclettici, fossero efficacissimi irregolari (Paolo Poli) o temprati teatranti tuttofare (Gigi Proietti, ma anche Massimo Ranieri). Giunto alla soglia dei settanta portati benissimo, Maurizio Micheli è senza dubbio cavallo adatto a consimili terreni: charme in abbondanza, sorriso complice-beffardo che non si sa mai se stia gabbando l’interlocutore o trattandolo da vero amico, quella luce negli occhi quasi impossibile da descrivere, eppure così evidente a chiunque l’abbia notata. Pugliese di natali toscani (labronici, con ascendenze lucchesi), Micheli vanta un curriculum sorprendente per densità e lignaggio: da Aldo Trionfo ad Antonello Falqui, da Umberto Simonetta a Steno, la carriera di questo comico simpatico ha conosciuto momenti di grande fama, raggiunta sempre grazie al profilo garbato, la vocazione al sorriso, alla sdrammatizzazione, qualità che gli hanno schiusi i cuori d’un pubblico generalista. La scena è per lui habitat naturale, dai primi monologhi affrontati da autore-attore (stilema comune a gran parte dei colleghi coevi) ai più recenti spettacoli brillanti, col progressivo diradarsi delle apparizioni televisive. Volentieri, dunque, lo ritroviamo sul palco di Bagni di Lucca, trai non pochi piccoli spazi punteggianti la Toscana in nome d’una resistenza scenica spesso condotta con strategie diversificate. E, in effetti, uno sguardo al pubblico generalmente muliebre e indiscutibilmente agée ben fotografa la situazione.
L’apertura del drappo rivela un pianoforte sulla sinistra, alcune sedie disseminate qua è là. Ecco Pasquale, uomo solo in fila, protagonista di un’attesa per assunto senza fine: l’occasione, un po’ telefonata, è la convocazione allo sportello di Equitalia, ma sin da subito è palese la dimensione metafisica del costrutto. Parla, Pasquale, rivolto alla platea e a qualche altro invisibile compagno di coda, condividendone la sorte da ultimi della fila, umanità s-centrata e fuori posto. Lo fa con la delicatezza composta e ammiccante che è chiave primaria d’un artista completo e in bella forma: dialoga col sopraggiunto pianista, slittando fluido dalla recitazione al canto, non senza cenni di danza che fanno tanto varietà. Sulle labbra, il sorriso si fa brillante, mentre lo sguardo s’accende di quella luce a conquistarsi il favore della sala, soprattutto nei momenti più crepuscolari. Numeri tra il cortese e il sornione, un gigionismo da usato sicuro che, complici le canzoni, porta a casa plausi e approvazione.
Gli ingredienti ci sono, ci sarebbero tutti, eppure manca qualcosa: la sensazione è tattile. Non che il pubblico sia inappagato: tutt’altro, il sentimento palpabile è d’aver spesa una serata piacevole. E proprio questo è, forse, il problema: esaurir tutto nell’equilibrio d’un bilancio in pari tra orizzonte d’attesa ed effettiva proposta: nessuno scarto, nessuna sorpresa né il coraggio d’un ancorché minimo rischio. A questo teatro sarebbe insulso chieder gli sconvolgimenti (talvolta prevedibili) di certa scena contemporanea, ma non per questo l’approdo ha da essere lo stagno appiattimento su una dimensione rinunciataria. Esempi virtuosi non mancano: la grazia d’un Kaemmerle o certe dolci amarezze del più struggente Jannacci, l’onesta crudeltà d’un Gaber (quella che gli indifendibili epigoni paiono ignorare per punto preso). In fondo, Kafka, Beckett e Gozzano possono, anzi sono, merce assimilabile da qualsiasi pubblico.
Niente di tutto ciò e, dunque, pur riconoscendo il valore indiscusso d’un attore, resta la sensazione d’una tangibile incompiutezza, poco o punto condivisa da un pubblico in piena crisi senza avvedersene, noi stessi, smarriti, e a nostra volta soli in fila.