Qualcosa abbiamo imparato, nella nostra cauta e sempre più consueta frequentazione della danza contemporanea, ossia che si tratta davvero d’una forma espressiva aperta alle soluzioni più impensabili, senza limiti quanto ad argomenti, possibilità, tonalità. Dal coreocabaret di Castello (senza tacer di Cosentino né dell’ultimo Alfa) alla ricerca tra sacro e personale di Virgilio Sieni (ma potremmo citare i bravissimi Chenevier, Russolillo, Bassi, Nari, giungendo sino a “mostri sacri” come Abbondanza-Bertoni), il ventaglio è amplissimo e le sorprese sono, ci rendiamo conto di quanto questa possa sembrare una contraddizione, all’ordine del giorno.
Al di là del gran parlare, delle recensioni internazionali, delle presentazioni di sorta (l’aspetto promozionale ha soppiantato la critica, lo sappiamo bene, e non sempre è colpa della “nostra” categoria: il punto è che le persone capaci si son date ad altro), una bella sorpresa è, senza dubbio, We Love Arabs di Hillel Kogan, danzatore israeliano con una solida esperienza alle spalle, in patria e non solo, da New York alla Svizzera al Portogallo, senza contar le tournée. Si tratta d’un piccolo gioiello di grazia, umorismo, pensiero: il tutto, precipitato nella tessitura d’una performance coreutica convincente per saldezza e coerenza.
Kogan entra e si rivolge al pubblico dall’antro nero del palco del Teatro di Rifredi (il fatto che molti spettacoli consimili rinuncino ad arredi e scenografie ci pare un punto di forza, non un limite): alle sue spalle, i sopratitoli rilanciano una sbiadita traduzione del parlato, ma il suo inglese, piano e ben scandito, si lascia intender da tutta la sala. Dice di corpi nello spazio, e quanto lo spazio informi i corpi, come l’organizzazione degli habitat costituisca una definizione profonda per gli elementi che finiscono per popolarli. Cesella il discorso con umorismo e presto s’addensano significati politici: il riferimento alle determinazioni spaziali che organizzano il Medio Oriente si fa palese, come le contraddizioni di una terra divisa, incapace ad accogliere due (o più) popoli.
Cerca un danzatore arabo, Kogan, e strappa sorrisi presto tramutati in risate: parrebbe uno stand up comedian, tanto il pubblico è sintonizzato sul suo humour gentile, furbesco, ammiccante. Teatro nel teatro o, meglio, danza nella danza: l’artista recita la parte d’un coreografo che cerca un danzatore arabo, sfruttando un ben congegnato gioco di scatole e rimandi. D’improvviso, il soggetto del desiderio compare: ha le fattezze di Adi Boutrous, ed è veramente un danzatore arabo. Si forma un tandem: dopo un divertente cicaleggìo, complice una tazza di hummus (tipica salsa mediorientale a base di ceci), una serie di giochi con simboli e luoghi comuni (la stella di David tratteggiata sulla maglietta, le scritte sulla pelle), i corpi dei due si librano in una serie di sequenze plastiche, suadenti, avvolte dal fumo che invade lo spazio ora azzurro per l’impiego delle luci.
Sembra la fine, non è così: la novella strana coppia esce dallo spazio dell’illusione per scendere in platea, il vero palcoscenico. In mano, l’hummus, che con le dita offrono agli spettatori nelle prime file.
È vero: lo spazio determina tutto. Mettiamolo in questione, se vogliamo cambiare il mondo, e anzitutto noi stessi.