Il sipario del Teatro Manzoni di Pistoia si apre sull’ultima replica di Odissea A/R, secondo spettacolo dal sapore omerico per la regista e drammaturga siciliana Emma Dante. La scena buia e nuda è racchiusa nella linea formata dai ventitré giovani attori della “Scuola dei mestieri dello spettacolo” del Teatro Biondo di Palermo, schierati, in tenuta collegiale, sui tre lati del palcoscenico, immobili, come in bilico sull’orlo di uno strapiombo.
La riga composta dalle fanciulle prende vita. Sfilando a gruppi alterni in perfetta sincronia, si presentano al pubblico le ancelle di Penelope, fra i crescenti fischi e schiamazzi provenienti dai ragazzi sui lati, i quali si proporranno, a loro volta, come il gruppo dei Proci.
Il testo di Emma Dante è facilmente fruibile dagli spettatori per la sua fedeltà, almeno per quanto concerne l’essenziale, al dettato omerico che abbiamo imparato a scuola. Tuttavia, se lo scheletro dell’opera non colpisce per guizzi di trama, sono narrazione e approccio a meravigliare per originalità e forza espressiva.
Ironia, poesia, delicatezza, pàthos e coralità sono i punti cardine attraverso cui si snoda e prende forma l’intero allestimento. Il linguaggio stesso è luogo di scontro e amalgama fra toni bassi e acuti, ora velato da quella patina di dialetto siculo che caratterizza i lavori della drammaturga/regista, ora intriso di elementi aulici, eco e specchio del poema in esametri. Ogni cifra stilistica si adatta perfettamente al proprio ruolo: mentre la coloritura linguistica è riservata alle scene grottesche, alle battute da cabaret, ai rozzi e volgari proci e alle ancelle disinibite e irriverenti, i monologhi luttuosi di Penelope, l’affetto della nutrice Euriclea per Telemaco e la nostalgia di Odisseo si esprimono in una lingua chiara, sintatticamente costruita.
I corpi degli allievi-attori, magistralmente orchestrati, sfamano il palco ampio e disadorno, nera bestia vorace, dando vita a vere e proprie coreografie-scenografie dal forte impatto immaginifico, sempre allusive e mai imitative. E, così, i ragazzi, divenuti vivo telaio, fanno scorrere ritmicamente tra le mani metri e metri di nera stoffa, filando il lutto che, in una scena straziante e onirica, seppellirà viva Penelope; poi, invertendo il ritmo e i gesti, da telaio a labirinto in cui Telemaco e la madre, tormentati, si cercano e si abbracciano. Ancora, sfacciati corpi in costume diventano una foresta di gambe sull’isola dove Odisseo è rimasto prigioniero della passione della ninfa Calipso e subito dopo imbarcazione che finalmente tornerà a casa, a Itaca.
Emma Dante racchiude il mare in un secchio e «il viaggio che ogni essere umano fa nel corso della vita» all’interno del proprio spettacolo. Il viaggio di andata, di Telemaco e quello di ritorno, di Odisseo da cui entrambi, alla fine, risulteranno mutati, non solo nel fisico, come nota una Penelope ancora incredula, ma nell’animo, ognuno trovando il proprio ruolo, misurando i propri limiti e la propria forza. Uno spettacolo seducente volto all’incanto, ricco di musiche, balli, e colori sgargianti, dietro cui si nasconde una galleria di eroi demitizzati, capaci di piangere, fragili pedine di una Fortuna che li vuole erranti e dubbiosi.
Meritevole dei numerosi e fragorosi applausi (anche a scena aperta) l’intera macchina teatrale formata da regista e attori che ha saputo sciogliere il risultato finale di un laboratorio dall’idea di “saggio”. Peccato solo per quella nota di espressività declamatoria e amatoriale che sfugge negli assoli.