Più ostico di un pugile che non cade mai: gli anni passano, ma siamo sempre lì. Il tempo scorre e la musica si trasforma portando con sè nuovi generi e cancellandone di vecchi. Il rock’n’roll, tuttavia, non retrocede di un passo, anzi si adatta alle esigenze del nuovo pubblico in modo sorprendente. E quando la campanella suona decretando il vincitore, è sempre “lui” ad alzare le mani con furiosa gioia. “La musica del diavolo”, come l’ha definita il tanto chiaccherato David Bowie, non sembra aver perso di smalto come sostengono in molti, ma ha soltanto rinnovato la propria identità.
Ciò che allora viene presentato in occasione del Lucca Teatro Festival è un ritorno alle origini, un piacevole resumè della storia del rock nei suoi primi cinquanta anni di storia. Avete letto bene: lo spettacolo messo in scena da Gianluca Magnani e compagnia (alias Flexus), infatti, è solo una delle due parti di un progetto unitario comprensivo di un “secondo atto” che, presumibilmente, raggiunge i giorni nostri. Ottima l’idea, peccato venirla a sapere un attimo prima che il complesso ringrazi il pubblico e lasci il palcoscenico. Nonostante questo, però, la band ci sorprende mostrando un repertorio vastissimo, partendo dall’ormai preistorico Robert Johnson fino ad arrivare all’eterna Money degli intramontabili Pink Floyd.
I Flexus presentano una sorta di “lezione” dedicata a un pubblico di giovanissimi che vogliono venire a contatto con un nuovo mondo, affidandosi a immagini proiettate e a strumenti d’epoca, uno su tutti il grammofono con cui inizia lo spettacolo: il rock affonda le sue radici proprio nel delicato blues di Bessie Smith riprodotto da quel disco in gommalacca (chi l’avrebbe mai detto?) sconosciuto ai più. Uno a uno, ritornano alla luce i più grandi interpreti di questa arte: se il rock trae le sue origini dalla musica afroamericana, come sottolineato più di una volta, sono però bianchi coloro che la sviluppano e la portano ai massimi livelli: Elvis, The Beatles, The Rolling Stones, persino il “nostro” Adriano Celentano: i mostri sacri del rock tutti qui, uno accanto all’altro, miscelati in un tempo forse troppo esiguo per dare loro l’importanza che meritano.
I tre ripropongono dei loro pezzi molto abilmente (magnifica l’esecuzione di Satisfaction) dimostrandosi nuovamente grandi musicisti impegnati nel difficile compito di raccontare una storia sinuosa, che per essere compresa al meglio necessiterebbe di una conoscenza più approfondita del contesto sociale dell’epoca. La musica, in fondo come ogni forma d’arte, è specchio della realtà di dove si sviluppa e, purtroppo, questo aspetto in La storia del rock, vedi la brevità dello spettacolo, vedi il pubblico a cui è rivolto, perde di valore.
L’impianto scenico è pressochè assente: più che la scena di uno spettacolo sembra una sala prove di una virtuosa band che si diletta un po’ in tutto. Lo spazio non è molto e qualcosa è rimasto addirittura fuori: così vediamo Daniele Brignone recuperare un basso elettrico da dietro le quinte. Sul palcoscenico, quindi, la situazione è caotica: troppa carne al fuoco o esemplificazione dell’essenza di un nuovo concept musicale, sregolato e fuori dagli schemi?
L’itinerario musicale presentato, quindi, nonostante alcuni difetti, riesce a rievocare in modo abbastanza efficace un periodo molto positivo per la musica, cercando di far capire ai giovani da dove si sia sviluppato quel genere che nell’ultimo secolo ha infiammato gli animi di molti.
Andrea Petri