La classe morta di Tadeusz Kantor è diventata la sala di un cinema a luci rosse; Nostra signora dei fiori di Jean Genet è diventato un film del quale udiamo solo il sonoro; il trans (Danio Manfredini) porta sulla schiena un paio di piccole ali rosse, un po’ Cupido, un po’ angelo berlinese wendersiano; le musiche di scena (curate da Marco Olivieri) spaziano dalla musica classica ai Pink Floyd senza dimenticare il premio Nobel Bob Dylan. Non mancano i riferimenti al Nuovo e all’Antico Testamento, con tanto di materializzazione di un Cristo in carne e ossa e citazioni dal Cantico dei Cantici.
Eppure, qualcosa si impiglia, non scorre, si blocca. Forse per scelta, forse per altri motivi, il meccanismo della scena è come inceppato. Forse appesantito dal moltiplicarsi dei riferimenti insiti nello spettacolo, Cinema cielo sembra sempre sul punto di decollare, ma non lo fa. A distanza di quattordici anni dalla sua prima messa in scena e a tredici dal Premio Ubu alla regia, il lavoro di Manfredini ha tutta l’aria di essere un’occasione persa. L’amore (assente, evocato e inappagato) e la morte danzano sulla scena, l’emarginazione e la solitudine sembrano poter diventare il motore dello spettacolo, ma tutto appare come ingabbiato. Con ogni probabilità, la volontà di far apparire la sala del Cinema Cielo come una grande gabbia rivestita di velluto rosso era tra le intenzioni del regista, e lo stesso si potrebbe dire della connotazione grottesca, macchiettistica di tutti i personaggi.
Il pubblico si trova di fronte le poltrone di un’altra sala (quella del cinema che dà il titolo alla performance) e osserva la scena come se vedesse attraverso lo schermo sul quale è proiettato il film tratto da Genet; nella platea fittizia siedono o si muovono i vari personaggi, fra loro tre manichini inquietanti ai quali se ne aggiungono altri, agiti dagli attori. Sulle note di Forever Young di Dylan viene simulato un atto sessuale tra uomini e manichini; nel finale, Manfredini, nei panni dell’angelo/trans incontra finalmente il suo mentore (il personaggio ripete più volte che la sua è una missione assegnatagli da Dio), un Gesù Cristo sui trampoli. Questa scena, dolente e ironica allo stesso tempo, è uno dei momenti più riusciti dell’allestimento.
Il giorno prima dello spettacolo, durante un incontro con gli studenti universitari impegnati nello stage Scritture sulla scena, l’autore e regista lombardo ha parlato del proprio lavoro, spiegando come il suo sia più un teatro d’avanguardia che di ricerca. Eviterò di interrogarmi su cosa intendesse Manfredini, ma sono costretto a notare che i momenti più emozionanti del suo spettacolo sono, invece, quelli che si materializzano sulla scena grazie a un uso intelligente e umile degli strumenti di quello che definirei artigianato teatrale. In merito, voglio citare la scena in cui uno dei performer crea un effetto di illuminazione stroboscopica muovendosi a scatti e spargendo in aria grossi coriandoli bianchi, mentre una luce chiara lo illumina. Di fronte a un momento come questo, l’appassionato di teatro si ridesta e riconosce, oltre alle grandi capacità attoriali e registiche, come un senso profondo del teatro.