Tra i nomi noti e amati che ritroviamo sulla locandina del Don Carlo di Genova, il più evidente è quello mancante: a otto mesi di distanza, l’improvvisa scomparsa di Daniela Dessì è ancora una ferita aperta per chi l’ha conosciuta. Sarebbe dovuta essere lei l’Elisabetta di questa grande produzione verdiana che adesso è dedicata al suo ricordo. Difficilmente poteva essere onorata meglio che con questo allestimento firmato da Cesare Lievi, grande nome della poesia e del teatro.
Il marmo bianco domina le scene di Maurizio Balò, trasponendo visivamente quell’insistenza lessicale e tematica sul sepolcro (l’avel spesso evocato). Inginocchiatoi dello stesso materiale faranno da fil rouge di tutta la rappresentazione: Lievi ha un approccio semantico, giocando costantemente sui simboli, soprattutto religiosi, spesso sproporzionati. Un rosario enorme intorno al collo di uno dei tanti frati di passaggio è solo un esempio fra i molti episodi in cui l’attenzione del regista si concentra sulla pesantezza del potere religioso sulla vita dell’impero spagnolo nel XVI secolo. Anche il potere temporale di Filippo II è rappresentato da un grande cappotto sulle spalle del basso Riccardo Zanellato: figura già imponente e voce profonda, unite a un’interpretazione sensibile e attenta, ci regalano un imperatore che davvero incute timore.
Il soggetto shilleriano racchiude i temi che percorrono le opere di Giuseppe Verdi, tutti riconducibili al rapporto con il potere (genitoriale, spirituale o secolare: qui ci sono tutti) e al conseguente scontro tra dovere e volere. Don Carlo si innamora di Elisabetta di Valois, in quel «dì senza diman» che noi, nella versione in quattro atti, non vediamo. Sventura: il Re Filippo II, padre di Don Carlo, sposa proprio quell’Elisabetta che era promessa al figlio. Il protagonista non si dà pace, pur sapendo che ormai il loro amore non potrà mai realizzarsi se non in quel «mondo migliore» che è l’eternità dopo la morte. Carlo è profondamente umano, costantemente ossessionato da quel giorno a Fontainebleau, tanto perfetto perché non ha avuto seguito: «non amo che le rose che non colsi» direbbe Gozzano.
È risaputo che per allestire un Don Carlo ci vogliano almeno cinque o sei cantanti di grande livello, pena il collasso della mastodontica creazione verdiana. Il cast messo in campo dal Carlo Felice è di tutto rispetto: oltre al già citato Zanellato (debuttante nel ruolo), segnaliamo l’ennesimo trionfo di Giovanna Casolla, già ampiamente celebrata su questi schermi: grazia, tecnica, potenza e interpretazione sono impressionanti anche a prescindere dall’età, quasi la stessa del cigno di Busseto quando debuttò la versione italiana in quattro atti del Don Carlos. La principessa Eboli è uno dei suoi ruoli d’elezione e il pubblico genovese le tributa due lunghissimi applausi a scena aperta per ringraziarla dell’ennesima performance indimenticabile. Sul podio c’è Valerio Galli, un esponente di quella classe di giovani direttori d’orchestra che fanno ben sperare per il futuro dell’opera in Italia. Anch’egli al primo confronto con il titolo verdiano, offre una direzione solenne e raffinatissima: vale come prova il modo in cui declina il tema dell’amicizia tra Carlo e Rodrigo, con un’aderenza agli affetti dei personaggi che bacchette più blasonate potrebbero invidiargli. È evidente l’attenzione alla resa degli interni, quelle voci fuori scena con cui ha dimestichezza grazie al continuo confronto con il repertorio pucciniano.
L’allestimento genovese, in coproduzione con il Teatro Regio di Parma, ha il merito di rendere ben visibili i rivolti politico-sociali del rapporto fra la monarchia e la Chiesa e, di conseguenza, le influenze che questi hanno sulle vicende dei personaggi. Lievi utilizza strumenti raffinati, simbolici e metaforici, per comunicare l’essenza dell’opera di Verdi.
Applausi interminabili del pubblico (non solo) genovese.