Sempre più difficile è parlare degli spettacoli della Compagnia della Fortezza in un numero contato di battute. Quasi impossibile è scrivere riguardo allo spettacolo di quest’anno, Le parole lievi: verrebbe da dire, in senso positivo, troppo, di tutto. Ma procediamo per gradi. Uno spettacolo tratto dalla complessa opera di Jorge Luis Borges, che prende forma in quello che sembra essere un diario di confidenze dello stesso Armando Punzo: le sue visioni, i suoi colori, i suoi fantasmi, la sua incrollabile fede costantemente minata da paure, timori e incertezze.
Siamo in un non luogo, e in questo non luogo che è il teatro si svolge l’azione. Il pubblico si stipa, come di consueto per le anteprime estive dei lavori della Compagnia della Fortezza, nel cortile dell’ora d’aria del carcere volterrano, e lì resta per l’intera durata della rappresentazione. Sotto il sole di luglio si assiste al compiersi, al farsi scena delle visioni partorite dal regista/attore, nella concretizzazione teatrale dell’uomo alle prese con sé stesso. Lo spettacolo si afferma per forza visiva, da sempre arma segreta e spinta propulsiva degli spettacoli della Compagnia. Punzo cammina e parla dimenticandosi dello spazio del cortile che perde i suoi contorni e muta, allungandosi e deformandosi, aprendosi su infinite stanze immaginarie. Qui, nascoste e pronte a rivelarsi allo sguardo dello spettatore, si trovano le creature parlanti o meno della rappresentazione.
Il regista, come in altri allestimenti passati, interviene direttamente nel corso della messa in scena, come se stessimo assistendo a una grande prova generale. Tutto questo, forse, a sottolineare la dichiarata dicitura di “primo studio”. Ogni opera della Compagnia si pone, al primo anno di lavorazione, come studio, lavoro ancora “grezzo”, da calibrare, in grado di raggiungere la propria vera forma soltanto l’anno successivo. Per Le parole lievi la Compagnia decide di sottolineare tale aspetto, probabilmente trovandosi di fronte a un’opera, quella di Borges, incredibilmente ampia e, in un certo senso, ancor più problematica.
È, forse, in quest’ultima creatura scenica della Compagnia che la libertà di lettura da parte dello spettatore rischia di divinire sconfinata. Tanto evidente quasi da infastidire. L’intensa sequenza di fotografie – sequenze in un certo senso autoconclusive, nelle quali i personaggi escono ed entrano in scena – così forti da soddisfare qualsiasi fame visiva, lascia un’incredibile spazio all’immaginazione. Guardando gli spettatori, si ha quasi la conferma che ognuno di essi si senta libero di leggere tutti i simboli che sfilano sulla scena codificandoli secondo il proprio bagaglio esperienziale. Ognuno vede, sente, respira e traduce un mondo di colori e forme, in preda a una rinnovata creatività febbricitante. Eppure, si tratta di uno spettacolo che sembra richiamare l’intimo pensiero dello stesso Punzo, un articolato sunto del suo “manifesto” teatrale, messa in scena che affonda le radici in una precisa e forse lucida visione, che in questo spettacolo, più che in altri, è strettamente riconducibile al suo creatore.
Chi scrive resta comunque in attesa di essere nuovamente colta di sorpresa, magari il prossimo anno.
(Spettacolo recensito anche da Igor Vazzaz in Volterra: parole lievi, questioni pesanti)