Si fa un bel parlare di grande regia, e siamo certi d’inerpicarci, così, su mulattiere ripide, prive della seppur minima ringhiera: i lettori arlecchini ci sanno, però, insolenti a sufficienza per argomentare anche le posizioni meno comode, come quella che ci pare inevitabile a proposito del Richard II firmato da Peter Stein.
Mezzi e qualità non mancano a un allestimento che conta su quindici validi attori, tra cui spicca la sempre mirabile Maddalena Crippa, stavolta in fogge virili, nella parte del protagonista. Scene, costumi e movimenti coreutici sono esemplari: le geometrie della cangiante struttura centrale consegnano all’occhio un quadro di chirurgica, disarmante pulizia e, tra i cromatismi, notevole è il fondo oro di reminiscenza bizantina (ma pure da medioevo senese) nelle scene a palazzo. Destituzione regale e guerra di successione scorrono come su una lama filatissima.
Il punto, però, sta non tanto nel mettere in scena l’ennesimo Shakespeare, contando sulla forza d’una produzione opulenta, o, per contro, nello stroncare i grandi spettacoli sulla base d’una miope contabilità economica. La questione, piuttosto, è mettere in vita (formidabile espressione che riprendiamo da Marco Martinelli) un testo, renderlo necessario, sia nel lavoro di allestimento sia, soprattutto, nella sua capacità, una volta tra-dotto in scena, di risuonare e imprimersi nella memoria emotiva ed estetica dello spettatore. Tale, ci pare, l’obbligo di chi fa teatro tout court, e d’arte in particolare: le alternative, altrimenti, non mancano, pure più comode, in senso sia logistico sia economico.
La recitazione ben condotta, seppure non impeccabile (non gettiamo croci, ma più d’un inciampo è stato avvertito), passa in secondo piano nel contesto d’uno spettacolo di cui è arduo scorgere l’intima urgenza, qualcosa in più d’una piana consuetudine professionistica. Tutto è ben portato, austero e magniloquente, le scene in armatura potrebbero persino impressionare, ma la scintilla non scocca. Mai.
E dire che Riccardo II, come ogni dramma scespiriano, non lesina spunti in termini di polifonia o piegature. Le intenzioni di Stein si fermano, però, alle note di regia: «Anche la profonda malinconia dell’ultimo monologo di Richard, quando è in carcere, dove parla dell’inutilità e della mancanza di senso dell’esistenza umana, ci può toccare in modo più commovente». Indicazione algida, telefonata e, per paradosso, coerente con un lavoro in cui tutto funziona, tranne l’innesco decisivo. Esemplare, così, la scena dei ripetuti guanti di sfida gettati a terra da Bolingbroke e Mowbray (bravi Alessandro Averone e Graziano Piazza): eluse le intrinseche potenzialità comico-parodiche, si resta con una concreta sensazione d’umorismo involontario, effetto piuttosto controproducente.
Il discorso su come affrontare Shakespeare si ripropone inesorabile: ossequiarne, in apparenza, le virgole, come Stein con questa bella traduzione del compianto Alessandro Serpieri, o smontarlo e rimontarlo, tra carotaggio e manomissione, per sondarne gli effetti più autentici, secondo quanto insegnato da Bene o De Berardinis, e ben appreso dai loro buoni (e ve ne sono) epigoni? Come in farmacia, la ricetta ideale non è per tutti la stessa, e il rispetto del testo non deve per forza coincidere con la sua inerziale mummificazione: i Nekrošius e i Koršunovas, infatti, senza intervenire sulla drammaturgia originale, ricuperano al Bardo l’ineludibile dimensione del gioco, del teatro più ludico e profondo, tra lacrima e risata, sgomento e ira. Un calore distante da questo Riccardo, che si perde nel plauso, anch’esso routinario e misurato, d’una tiepida platea autunnale.