È stata, quella trascorsa, un’estate santa sotto il profilo teatrale. Intendiamoci: non particolarmente fortunata, ché sulle disavventure sceniche nostre e del nostro paese sarebbe da dirne più che quattro, ma, per quanto ci compete, possiamo dire di un’estate sensibilmente consacrata alla rievocazione religiosa. Difficile dire se sia spirito del tempo (scriveremmo Zeitgeist, ma saremmo tacciati di tirarcela: quindi, non lo facciamo), merito dell’efficace e furbesco papa argentino (neppur troppo nascostamente cripto-peronista) o frutto d’altre impalpabili conseguenze: tant’è, nel giro d’una settimana, eccoci tra chiese e conventi, sulle tracce di spettacoli dichiaratamente ispirati a vicende cristiane.
Ecco il primo.
Imponente da incuter timore, la massiccia certosa di Pisa, che solo le ultime vicissitudini toponomastiche attribuiscono, nell’uso comune, alla più limitrofa Calci. Il barocco pachiderma color crema fa da sfondo a un piccolo ma verace festival, in una cornice scenografica che poco o nulla abbisogna di più.
Nel cortile principale, al centro della doppia scala traversata da un lungo drappo vermiglio, la pedana che accoglie la batteria di Piero Perelli. Nerovestito, barba e capelli lunghi quanto corvini: dà inizio a un tam-tam di timpani, ieratico e sensuale. Tanto basta al precipitar d’un soffice silenzio, come la luce serotina via via scemata sui capi, ora quieti, degli spettatori.
Scala i gradini, guadagnando la scena, Nicola Fanucchi: brizzolato, sorridente, occhi sottili di chi ne ha viste, e ne può raccontare. Il busto è fasciato da una camicia bruna, senza richiami a quel che sta per riferire. Inizia a parlare. E parla. Parla. Parla. Dice di quel Nazareno, dice della sua vicenda, parabola a racchiudere altre parabole, incastro che quasi parrebbe gioco borgesiano, storia che contiene e narra altre storie, come Le mille e una notte.
L’eloquio è morbido, a tratti flautato, talvolta interrotto, con sapienza, da bruschi e calibrati cambi di ritmo. Pronuncia le parole scritte da Marco, distanti, dense, eppure calde: cugino di Barnaba, non è chiaro se il santo del leone (quello di Venezia, per intenderci) abbia o meno assistito alle vicende narrate; del resto, lui e Luca sono i due autori del canone che non furono apostoli del Nazareno.
Parla, Fanucchi, ancora: e qui s’annidano pregi e limiti d’un allestimento che, in teoria, potrebbe molto, ma, in pratica, è come se restasse inespresso, bloccato a livello di buona intenzione. Vero è che in principio fu il Verbo, ossia la parola, ma, a teatro, non sempre la parola può dirsi sufficiente. O, meglio: il testo di Marco è senz’altro forte, ma proprio per questo, in termini scenici, la sua traslazione teatrale necessita d’una parimenti efficace corrispondenza visiva e sonora.
La parte musicale è scientemente monocorde: non ci pare, però, la sacra monotonia (in senso etimologico) d’un andamento solenne; l’impressione è, piuttosto, d’un binario in tutto parallelo al dettato verbale, senza meditati punti d’incontro (o scontro). Manca un quid, un’impennata d’un qualche tipo, corporeo o sonoro, a rompere il quadro e portarci altrove, in quell’andito nascosto che è il cuore (e la ragion d’essere) del teatro.
Non abbiamo (e quando mai?) ricette sempre valide, ma l’improvvisazione, anche in accostamenti arditi, ha bisogno d’autentica magia per funzionare, e l’impressione, in questo caso, è d’una scintilla non scoccata. Peccato, perché questo Secondo Marco potrebbe buttar bene, ma a patto di altro lavoro e scrittura (di scena) per evitar d’annoverarsi tra le occasioni perdute.