C’era una volta un uomo, che desiderava tantissimo avere un figlio: decise, quindi, di costruire con le proprie mani un burattino di legno, affinché gli facesse compagnia. Il suo nome era Geppetto e la sua storia nasce dalla fantasia di Carlo Collodi nel lontano 1881. 235 anni più tardi, Tindaro Granata, talentuosissimo ed eclettico attautore (Arlecchino ne ha già detto) ne ricava una drammaturgia al cui centro sta la storia di un moderno Pinocchio, cresciuto da due padri, anch’essi desiderosi di avere un figlio nato dal proprio seme.
Fiumi di inchiostro sono stati versati per Geppetto e Geppetto, pièce ricca di riferimenti attuali e forte del premio Ubu 2016. Ne hanno scritto sventolando la bandiera arcobaleno, quando invero, dopo aver assistito a una replica presso il Teatro di Rifredi, si esce con un forte sentimento di “famiglia”. Il nudo palco vede la presenza di un tavolo, da cui sporgono tre cartelli (ognuno con una scritta: “a volte è agenzia”, “a volte è cucina”, “a volte è scuola”) che indicano la pluralità di luoghi di cui questo sarà parte. Lungo le quinte laterali, alcuni sgabelli su cui sosteranno gli attori non impegnati in scena. Questi indosseranno sempre delle t-shirt nere su cui è applicato il nome del personaggio interpretato.
Il tema familiare è da sempre caro al regista, basti pensare al suo primo allestimento Antropolaroid (2011), legato a doppio filo con il proprio vissuto: anche in Geppetto e Geppetto, i personaggi masticano una pronunciata cadenza sicula (soprattutto per quanto concerne il ruolo della madre), vezzo che regala al pubblico, sin dalle prime battute, l’occasione di copiose risate.
La storia della coppia di uomini alla ricerca di un figlio vede i due fronteggiare numerose difficoltà: dal concepimento alla crescita del bambino, dai problemi connessi ai diritti dei genitori alle ricadute sui pregiudizi della società. Molti i temi affrontati, tutti legati all’attualità, espressi attraverso un lavoro drammaturgico fortemente “classico”, che presenta al proprio interno tre diversi momenti, alla stregua di ipotetiche “cantiche”: una prima parte molto simile alla commedia, una seconda attinente al dramma, e l’ultima che denota tinte tragiche; la forte ironia di Granata, però, non condurrà mai lo spettatore a una funesta tristezza.
La drammaturgia si sposa con la regia nell’attimo stesso in cui vengono utilizzati due registri stilistici che vedono, in un dialogo o monologo, la compresenza, per lo stesso interprete, di interpretazione e narrazione: in alcuni momenti, s’impersona il carattere (azione soggettiva), in altri, si racconta in terza persona quel che accade (azione oggettiva). La fluidità del testo, ottima la partitura ritmica, è resa in scena dalla grande sintonia tra Granata e Li Volsi, i due Geppetto che portano avanti buona parte della piéce. Meno convincente la parte in cui il bravo Angelo di Genio, nei panni del protagonista Matteo in età adolescenziale, si rapporta con gli amici Walter (Carlo Guasconi) e Lucia (Lucia Rea): prevale il performativo e le scene risultano costruite (posizioni coreografiche prevedibili, litigi troppo calcati) e meno efficaci rispetto alla linearità della prima parte.
Sicuramente, si tratta di uno spettacolo da vedere, non tanto per il legame alla stepchild adoption o per gli audio imbarazzanti dei partecipanti al Family Day (che hanno una funzione d’intermezzo comico-grottesco tra una scena all’altra), quanto per assaporare le tinte di un’efficace drammaturgia contemporanea.