Teatro e racconto: poli distinti, antipodici. Eppure in relazione, al punto che è impossibile separarli del tutto. Più che da anni, diremmo da sempre il teatro si divincola tra i legacci del logos, che tutto vorrebbe permeare, a cui tutto si vorrebbe far risalire. E ci riesce eccome, il teatro, a svincolarsi. Non è (stato) facile, ma che l’arte scenica sia anche qualcosa di oltre (sopra, sotto, davanti, dietro… poco importa) alla parola, elemento atomico d’ogni racconto, è acquisito, anche per i più renitenti e meno disponibili alle concessioni.
Da qui partiamo per analizzare Leonardo da Vinci di Michele Santeramo: ci deve aver preso gusto, il drammaturgo pugliese, a stare in scena. Dopo La prossima stagione e Il nullafacente, rieccolo, da solo, a pronunciare le parole che, per mestiere, ha sempre cacciato nelle bocche altrui. Non son pochi i fili sottesi che, dai lavori menzionati, conducono a questa fiaba strana, stralunata, offerta con un filo di voce. L’ostentata cantilena musicale, a quasi echeggiare il veneto (cadenza cardine nella nostra storia teatrale), è supportata da un timbro ampio, flautato, innervato di sottili ironie.
È elegante, l’attore-autore: abito scuro, riccioli azzimati, mocassini brillanti. Siede al piccolo tavolo ove sono poggiati i fogli da leggere: non è memoria imperfetta (assistiamo al debutto assoluto), ma scelta straniante. Non l’unica: più volte, l’artista ci rammenta che siamo a teatro, accennando ai disegni cangianti sullo schermo alle spalle, ammiccando al pubblico («ma questo… voi, lo sapete…» il ritornello), attuando piccoli escamotage gestuali che paiono dischiudere lo spazio, abitarlo grazie alla suggestione.
L’opera nascosta del titolo è la “scusa” per un gioco ucronico (ucronia: narrazione che sviluppa esiti alternativi per storie reali, o molto note). Il “nostro” Leonardo, il genio, è ingaggiato da un nobile per approntare macchine belliche. Instaurato un improbabilissimo dialogo con Monna Lisa, eccolo concentrarsi sull’ambizioso progetto d’eliminare la morte dal mondo.
Questa la stura per una sorta d’apologo zen, parabola esemplare che, con delicato umorismo filosofico, lambisce il cuore pulsante della questione teatrale per eccellenza: il rapporto col tempo e la morte. Da un lato, l’impossibilità di pensare il “non-esserci” è nemico paradossale, ineffabile; dall’altro, si evince come pure la Nera Signora possa risultare, non solo inevitabile, ma necessaria, addirittura agognata.
I disegni di Cristina Gardumi, qui più che altrove, sono presenze discrete e polifoniche: si susseguono senza mai esser video, sposando i tratti decisi a raffigurazioni tra naïf, grottesco e caricaturale. Supportano il dettato, punteggiandolo, talvolta in sintonia, talvolta in sapido contrappunto: l’impiego varia nel corso del racconto e particolarmente gustoso sono le illustrazioni che raffigurano una folla di visi a riempire il quadro, per poi via via sparire.
«Si può vivere senza la morte?» chiede Santeramo: la favoletta di sapore borgesiano scopre riflessioni comuni ad altre narrazioni contemporanee (il riferimento alla serie Black Mirror ci appare dichiarato), sfidando lo spettatore, questa l’ulteriore perla, sul campo della finzione, ambito non meno necessario, e credibile, del cosiddetto “reale”. Tutto ciò, in scena, luogo che per eccellenza vede il gesto farsi rito, il racconto farsi corpo, pure attraverso la parola.
È, quindi, racconto o teatro? La seconda, senz’altro: ché la voce, il corpo e i gesti di Santeramo sono qui elementi insostituibili per un lavoro davvero pregevole.
Applausi convinti.