Ci accoglie nella sala del Teatro Colombo un persistente rumore di vento, che fuoriesce dalle casse ai lati del palcoscenico. A tagliare orizzontalmente il palco, celando dietro di sé parte della scena, c’è un telo pallido, forse il velo sottile che separa la vita e la morte, o la storia e il mito. Dietro, si intravedono sfuggenti forme d’ombra, mentre, in posizione avanzata, le sagome sono lineari e la narrazione definita.
Primo ad apparire sulla scena è, come i più attenti possono immediatamente intuire, il vecchio Tiresia, che declama la sentenza in seguito alla quale la casa di Edipo andrà in rovina. Solo dopo comincia la storia, in cui si entra poco per volta: la vestizione, momento topico della cultura greca, ha una sua ironica sacralità, e qualche risata sfugge al pubblico quando a partire da boxer che recano la scritta “uomo” per Davide Arena e “donna” per Alessandro Balestrieri i due si trasformano in Edipo e Giocasta, a cui si aggiunge Lorenzo Torracchi, che da Tiresia diviene Creonte. Di attori ce ne sarebbe un altro, per la verità, Silvia Bennet, qui accreditata come coreografa: compare sempre a capo coperto, al punto che si ha l’impressione di una presenza totalmente maschile sulla scena, fatto salvo per una Chimera dalla voce suadente e le forme appena intravedibili, non umana e perciò distante.
L’intera rappresentazione si gioca su un labile e ben calibrato equilibrio tra leggerezza e riflessione: diverse modalità di espressione concorrono alla creazione di un’opera unitaria e coerente, in cui tutto è racconto, dai più semplici movimenti alla danza contemporanea, e questo con moderata eleganza, in modo pulito. Si può dire che la storia sia nota a tutti, che abbiano o meno letto Sofocle; il potere della parola come semplice mezzo narrativo, quindi, si affievolisce, e il dilagante soffiare del vento, che talvolta ottenebra le voci degli attori, non infastidisce, ma sembra ricordare che, al di là delle singole voci, la tragedia umana si reitera da sempre uguale a sé stessa. Edipo e Giocasta si corteggiano l’un l’altro con spudoratezza, lei è più alta, più bella, più sicura, più grande, e da subito tra i due si rende evidente una tragicomica perversione.
L’Edipo di Caterina Simonelli non crolla ai piedi dell’amata morta, né si trafigge, in un gesto estremo, gli occhi già da tempo incapaci di decodificare la realtà. Protagonista assoluta diviene, così, Giocasta, la cui morte riempie una scena ormai desolata, e travolge qualsiasi possibilità di salvezza: non si tratta di semplice senso di colpa e, in uno straziante monologo finale, la morte si rivelerà unica scelta possibile in un universo in cui l’uomo è burattino mosso dagli dèi, e la libertà delle pulsioni non è che apparente.
L’ironia tragica, ovviamente, è un’immensa costante: ogni parola è come anticipata nella mente di uno qualunque degli spettatori: ciò che veramente importa è l’estrema eleganza della rappresentazione, che permette di ritrovarsi con un groppo alla gola quando il dramma raggiunge l’apice, ancorché annunciato, non ignoto.
E, alla fin fine, anche un arlecchino ha talvolta bisogno di essere scosso: forse, è proprio questo che va cercando nella caparbia reiterazione dei viaggi a teatro.