Quando vedo orde di studentelli nel foyer di un teatro è come se sperassi, ancor più del solito, che lo spettacolo in questione sia “fatto bene” o, per lo meno, abbia le giuste qualità affinché dei G.D.S. (Giovani Digiuni Spettatori) possano essere invogliati diventare frequentatori abituali di platee. Spesso, tali speranze vengono infrante da allestimenti “classici” di durata improponibile (che i G.D. paragonano, in chiave peggiorativa, a puntate di serie tv) o da regie oltremodo pesanti. È con gioia, dunque, che accogliamo un’eccezione degna di nota come Enrico IV firmato Carlo Cecchi.
Tra le opere pirandelliane, questa è, forse, una delle più fortunate, con la trama sul filo della pazzia simulata (siamo nel primo Novecento) da parte di un nobile che, battuta la testa, afferma di essere Enrico IV di Germania; solo successivamente si scoprirà trattarsi di un inganno ordito da questi.
Il testo ben si presta, dunque, alla riflessione su uno dei chiodi fissi del regista toscano d’adozione napoletana: il teatro come giuoco, con i suoi meccanismi che s’aggrovigliano all’interno della storia lasciando lo spettatore incerto e dubbioso su cosa sia vero e cosa finto. Lo stile recitativo di Cecchi è lo stesso a cui ci ha abituati l’artista, con quella noia, esibita e sbruffona, nella ripetizione, manifestata in battute quali: «Dovrò essere Enrico IV per ancora molte repliche…» O, sul finale, davanti al cadavere: «Alzati, ché domani abbiamo un’altra messinscena!»
“Strizzate d’occhio” sulla teatralità che sono, ormai, uno dei fiori all’occhiello del consumato e riconosciuto teatrante. La quarta parete si frantuma sin da subito quando i giovani attori della compagnia, impegnati a spartirsi le parti, inciampano nella classica crisi di ruolo: l’interprete diplomato all’accademia Silvio d’Amico rifiuta di fare la comparsa…
Il cast serve il Maestro, spesso ricalcandone modi e gesti, in un’opera di grande impatto coreutico, anche grazie alla presenza di interpreti d’eccezione quali Angelica Ippolito, Gigio Morra e Roberto Trifirò. Le scene di Sergio Tramonti rivelano anch’esse, nella loro semplice funzionalità, la prospettiva metateatrale dell’intero allestimento: quinte mobili bifrontali posizionate, in base all’atto e al momento, per simulare, prima, il retro di uno scenario, poi, sull’altro lato, pannelli damascati riecheggianti interni sfarzosi.
Carlo Cecchi “asciuga” il dettato originale, lo rende scorrevole, moderno, a tratti farsesco (dichiara apertamente: «Che la tragedia fosse una farsa?»), adatto dunque a un pubblico più giovane, che a scuola ha letto il soggetto originario e che può apprezzare le qualità della nuova stesura.
Tre i livelli presenti in questa pièce: la trama di Enrico IV di Pirandello, il riadattamento di Cecchi, ma anche la lezione che il regista di teatro impartisce agli attori più giovani. Rimarchevole il monologo con cui il Maestro insegna il gioco al teatro, parlando della lettera che lo stesso Pirandello scrisse a Ruggero Ruggeri, il grand’attore cui aveva pensato nella redazione del dramma, e ci ricorda che, fuori da quel magico mondo, c’è la vita e che gli interpreti non sono che rimasticatori di parole. Cecchi è esplicito, ma anche ironico, nel dichiarare che, a differenza di Pirandello, vuole per il suo Enrico una commozione teatrale, e non cerebrale.
Copiosi applausi al termine di uno spettacolo che, non solo, è “fatto bene”, ma che, assai probabilmente, permetterà ai numerosi G.D.S. di tornare a teatro per una seconda possibilità. E questo è quello che conta.