Confrontarsi con uno dei classici della letteratura italiana ci pare una sfida ardua per chiunque, ancora di più quando al già complesso paragone si aggiunge, ulteriormente, una fortunata trasposizione cinematografica. Non è quindi semplice riadattare per il teatro un’opera del calibro di Il nome della rosa di Umberto Eco, vuoi per il romanzo edito da Bompiani nel 1980, vuoi per la pellicola di Jean-Jacques Annaud uscita sei anni dopo.
Stefano Massini (l’abbiamo intervistato pure noi), chiamato al confronto con simili opere, ne viene fuori in maniera vincente, costruendo una drammaturgia che, sì, guarda al film e al testo di partenza, ma senza scimmiottamenti, senza copiature, senza appiattirsi su quanto già realizzato.
La sua stesura è accurata: non trascura scene in apparenza marginali, ma fondamentali per comprendere i personaggi (come l’episodio del cavallo Brunello, dove Guglielmo da Baskerville tramite pochi indizi, riesce a indicare, oltre a dove sia andato l’equino, anche il nome, dando prova del suo grande acume), opta per dialoghi molto asciutti tendenti al colloquiale, nonostante il peculiare ambiente conventuale. Il regista Leo Muscato, d’altro canto, si affida a un cast composto da attori che sono una garanzia per efficacia e bravura, impiegandoli a mo’ di pedine di scacchi nella mastodontica scenografia realizzata da Margherita Palli.
A nostro avviso, questa versione scenica del capolavoro di Eco rappresenta uno di quei casi per cui può valere la pena spostarsi per assistervi, possibilmente in spazi idonei a ospitare un kolossal di simile portata. Tra gli elementi del libro a rendere complessa una traduzione scenica vi è, infatti, l’ambientazione assai variata: Palli la rende con una struttura su più livelli che, modificandosi a vista, diviene, ora, bellissima e altisonante biblioteca, ora, interno di un’austera cattedrale. Per gli “esterni”, invece, viene utilizzato il proscenio, con l’aiuto di un fondale per videoproiezioni a mo’ di sipario alla tedesca, celando la scena retrostante.
Fabio Massimo Iaquone e Luca Attilii sono gli autori dei video che arricchiscono gli ambienti, andando a incorniciare la scenografia con eventuali scritte di libri o, perfino, le copiose fiamme dell’epilogo finale, che ricordano in qualche modo le lingue di fuoco di The crossing di Bill Viola. I richiami figurativi sono molteplici: dal commovente ritrovamento di un cadavere in una vasca in posa per La morte di Marat di Jacques Louis David, ad ancora Bill Viola (Woman Fire) nella suggestiva immagine della giovane donna peccaminosa che brucia camminando.
Luca Lazzareschi è un Guglielmo da Baskerville molto astuto, a tratti spocchioso per l’ostentazione della propria cultura ai danni del giovane Adso, imbranato e desideroso della scoperta, interpretato da Giovanni Anzaldo. Luigi Diberti con voce suadente è Adso adulto, narratore dell’intera vicenda, mentre Eugenio Allegri regala una doppia interpretazione degna di menzione, sia come Ubertino da Casale sia nei panni dell’inquisitore Bernardo Gui. Troviamo, inoltre, Renato Carpentieri, prima accomodante e poi spietato, nei panni di Jorge da Burgos, a dominare la biblioteca, sia fisicamente sia grazie alla propria forza oratoria.
Fa piacere vedere produzioni di questo tipo, con ben tredici attori, tutti di grande livello, con scenografie, riadattamento e regia “firmati”, ci danno l’impressione che i nostri soldi pubblici, che vanno a confluire nel Fus, siano ben investiti. Molto più del canone Rai.