Accade sempre più spesso che l’appassionato, velleitario, finanche fiaccato critico teatrale, temerario rappresentante d’un (non)mestiere insidioso, s’apparecchi alla visione di uno spettacolo tratto da una fonte a lui ignota. Non è, né può essere un problema: in tempi di saldo codice scenico (non li rimpiangiamo: manco eravamo nati) l’occorrenza era inconsueta, le messinscena si basavano su drammaturgie conchiuse ed esisteva un canone sulla cui base si svolgevano e il fatto teatrale e l’esercizio critico.
Adesso, in tempi di polverizzazione (dei saperi, delle esperienze, del tempo stesso dedicato alla fruizione), non è più così e capita d’assistere a uno spettacolo senza aver cognizioni circa la sua eventuale sorgente. Non può essere un problema e, se lo diventa, è giusto provare a parlarne, proprio per assolvere la funzione che taluni vorrebbero ignorare: nell’interesse del fatto scenico stesso, di chi lo realizza e di chi, soprattutto, ne sarebbe l’ideale destinatario.
La boutique del mistero: 31 storie di magia quotidiana è il titolo d’una raccolta di racconti che Dino Buzzati pubblica nel 1968, best of in cui troviamo concentrati alcuni temi fondamentali per l’autore bellunese: solitudine, metamorfosi (intesa come crescita), paura, angoscia. Da questo volume, sfuggente, paradossale, il regista Giulio Costa trae una partitura scenica ad alto coefficiente di rischio, facendosi carico del precipitato onirico e ossessivo delle narrazioni. L’ambito produttivo, Trento Spettacoli, ben giustifica l’intenzione: protagonista è Woody Neri, da anni “intrappolato” presso la Fortezza Bastiani nei panni del sottotenente Drogo per una bella versione di Il deserto dei Tartari (altrove ne parlammo). Con lui, Stefano Detassis e Maura Pettorruso, che ricordiamo coinvolti in una consimile operazione, la traduzione scenica di Addio alle armi per cui l’attrice aveva curato, come nel presente caso, il delicatissimo passaggio di forma.
Pantaloni corti, aria infantile, Neri guadagna il palco con le luci in sala ancora accese. Legge, ed entriamo così nella penombra d’una vicenda composita, avvolgente. Lo spazio, nero di quinte e chiaro d’assi legnose, è di metafisica vacuità, pronto a riempirsi di panche, in un gioco fanciullo di scafi a motore. La macchina s’innesca: arriva Alice Conti e la danza teatrale avviluppa lo spettatore, come il risucchio d’un gorgo o l’occhio d’un tornado. Il bambino Neri diviene adulto, ed è evidente che ci troviamo dinanzi a un intarsio, un’articolatissima struttura di rimandi narrativi che risuona di nomi, di elementi. Si percepisce uno scavo psicologico di cura maniacale, ma che non corrobora il gioco scenico che i quattro attori mettono in campo, disegnando traiettorie nello spazio semivuoto, slittando di personaggio in personaggio.
Si smarrisce, però, il filo, come nel mezzo d’un labirinto: che proprio questo sia lo scopo perseguito da Costa? Emerge, altresì, l’impressione palpabile d’un’esperienza monca: dotati di opportuni strumenti esegetici, forse, avremmo potuto restar più prossimi alla recita, apprezzare davvero il raffinato lavoro di riscrittura. Non è così.
Confessiamo d’esser da sempre assertori dell’assoluta indipendenza del fatto scenico e, poste le giuste cautele su condivisione di codici e consuetudine formale (come dire: un astemio non può giudicare un vino), l’idea di uno spettacolo che sembra esigere una preparazione specifica ci risulta difficile da accettare, proprio perché non si svolge all’interno di un convegno, ma si rivolge per principio a un pubblico ampio e variegato. Chissà che con il fluire delle repliche, la scena non riguadagni la propria irrinunciabile posizione.