Damiano Michieletto, classe 1975, è colui che meglio incarna la tendenza del teatro d’opera che, dalla metà degli anni Novanta, chiede al regista un intervento creativo piuttosto che interpretativo. L’apertura della stagione del Teatro dell’Opera di Roma è l’occasione per spingere questo percorso alle sue estreme conseguenze. S’inaugura con La damnation de Faust di Hector Berlioz, raffinatissimo compositore che per la sua interpretazione del mito goethiano sceglie un genere ibrido, l’opera-oratorio. L’oratorio, tipo di composizione drammatica che non prevede rappresentazione, nasce nel Seicento per raccontare vicende sacre senza rischiare di “profanarle” con la messinscena. L’età romantica riprende il genere, stavolta con l’obiettivo di svincolare la composizione dalle ragioni contingenti del rappresentabile. È così che Berlioz può dipingere minuziosamente quindici quadri, senza preoccuparsi delle problematiche della liaison des scènes.
In questo allestimento si mette in evidenza la segmentazione, senza preoccuparsi troppo del filo conduttore: Michieletto racconta una storia diversa. Tutto si svolge in un unico ambiente bianco e asettico, disegnato da Paolo Fantin. Nella parte alta, il coro, seduto in banchi ripidissimi, incombe sulla scena, dominata al centro da uno schermo, ai cui lati si aprono, quando necessario, due corridoi paralleli, anch’essi di un bianco fantascientifico. Lo spazio scenico vero e proprio diventa, dunque, una sorta di ampio proscenio, dove prendono vita segmenti narrativi che intersecano solo occasionalmente le vicende di Faust. La temporalità è frammentata e non lineare, anche grazie ai video, alcuni realizzati con la steadycam, spesso sul palco per dare importanza ai dettagli o seguire i personaggi quando li perdiamo di vista nei corridoi laterali.
Michieletto approfitta della lingua straniera e dei lunghi momenti sinfonici per disfarsi della drammaturgia originaria: la sua operazione non è una traslazione per dare nuovo significato, ma puro gioco, sapiente macchina teatrale che regala visioni indimenticabili. La musica di Berlioz diventa una sorta di schema ritmico su cui innestare, talvolta con sfacciato virtuosismo, azioni e immagini, creando rimandi semantici ora armoniosi ora in conflitto, ma sempre inediti. Margherita (Veronica Simeoni) che canta rovesciandosi in testa dei bicchieri d’acqua, Faust (Pavel Cernoch) vittima di bullismo a scuola, Mefistofele (Alex Esposito) che lava i piedi al protagonista: un opulento caleidoscopio ci allontana dal filo del discorso per condurci all’essenza della mirabolante composizione di Berlioz e al mito di Goethe.
Restano alcune perplessità per un lavoro che ha spaccato pubblico e critica, tanto da dover interrompere una replica per grida provenienti dalle gallerie («Sacrilege!», forse riferendosi all’accordo di Faust con il diavolo). Michieletto spinge il teatro musicale in luoghi nuovi ed esaltanti, inesplorati anche da molto teatro contemporaneo. Nel farlo sacrifica, indubbiamente, la componente musicale, tanto da renderla quasi superflua nel racconto dello spettacolo. Sul podio c’è Daniele Gatti che, con questa musica d’opera di stampo sinfonico, si trova a suo agio, tanto da regalare un’interpretazione curatissima e indimenticabile. Il terzetto canta in modo impeccabile, ma si è incoraggiati a notare soprattutto il loro talento attoriale fuori dal comune, specialmente per dei cantanti. La regia rischia di essere troppo protagonista, senza lasciare spazio all’altra componente fondamentale: la musica. Dopo la giustificata esaltazione rimane un po’ il sospetto che il regista, consapevole di offrire uno sguardo potente e uno spettacolo indimenticabile, sia stato poco elegante nel gestire il delicato equilibrio tra visione e ascolto.