Io, che sono Arlecchino, mi aggiro per teatri, ma non solo.
Sovente, mi accascio comodo e languido sul divano, rimpiangendo l’assenza di un Édouard Manet per eternarmi olimpicamente in posa. Dal divano, capita d’accendere la televisione e sprofondare, mente e sguardo, tra le immagini rimbalzate dallo schermo che, da nero, si fa luminoso.
Io, che sono Arlecchino, mai mi son dato arie di snob: son servo, e furfante balordo. Così, mi diletto con qualsiasi spettacolo possa darsi, ivi compreso il Festival di Sanremo, che mai come quest’anno ha calamitato strali e apprezzamenti dagli artisti scenici di cui son uso occuparmi.
Non avrei voluto certo mettermi in coda per commentare il Koltès di Pierfrancesco Favino e, coerente, ho soprasseduto. Ma, ricevendo un corposo scritto da Anna Barsotti, docente di Storia del Teatro nonché professoressa di più d’un mio seguace attivo su questa testata, non ho potuto trattener la gioia, leggere avidamente e compiacermi.
Eccomi, dunque, a condividere con voi un contributo che ha i crismi sia dello sguardazzo sia dello sdottorazzo, ricordandovi che qui #recensiamotutto.
Ma, scusate, Sanremo non è spettacolo?
Io, che insegno Storia del Teatro e dello Spettacolo all’Università di Pisa, ritengo che si tratti anche di teatro contemporaneo, specialmente quest’anno.
E non solo per il monologo di Koltès recitato da Pierfrancesco Favino, ma perché questo fenomeno è rituale e pop al contempo, d’ormai antica tradizione, se si pensa che il Festival della canzone italiana nasce nel 1951, all’interno del salone del Casinò, con gli spettatori seduti ai tavolini sparsi, come nel cafè chantant francese; anche se, per l’occasione, andò in onda soltanto via radio, grazie all’EIAR (“Mamma” RAI sarebbe nata qualche anno più tardi, nel 1954). Lo sviluppo decisivo si ebbe, però, con l’avvento della televisione, nel 1955, radunando gruppi familiari e interfamiliari quasi come per uno spettacolo di piazza.
A maggior ragione oggi che il teatro è diventato s-regolato, privo di punti di riferimento fissi e convenzionali (ciò ne costituisce la ricchezza), certi steccati non si pongono più, neppure nell’Accademia. Escludendo di analizzare l’aspetto performativo – oltre che sonoro – del fenomeno Sanremo si rischia davvero di essere rétro!
Prendiamolo, dunque, in esame, questo Sanremo, e, come nella migliore tradizione delle schede analitiche sul teatro e lo spettacolo, concentriamoci sull’ultima edizione.
Scenografia
Il palco dell’Ariston è stato continuamente trasformato dai giochi di luci, mostrando i progressi dell’illuminotecnica capace, appunto, di creare spazi e di rimuoverli: una festa di colori, come in certe ricorrenze paesane (sacre o profane), più aleatoria e concreta rispetto ai canonici e pubblicitari fiori (che — ha notato qualcuno — sembravano finti). L’Italia è un paese, del resto, talvolta nel peggiore dei casi uno strapaese.
L’orchestra in palcoscenico (ce l’aveva messa anche Luchino Visconti nel suo fantasmagorico Oreste di Vittorio Alfieri, nel 1949) e i musicisti bene in vista come personaggi, i direttori focalizzati in primo piano dal raggio di luce, quando annunciati, con protagonista Peppe Vessicchio (ritornato a furor di popolo): il popolo/pubblico frontale, eppure attraversato dalle incursioni di comici e cantanti, quelli più intesi a rompere la quarta parete e bucare lo schermo. Popolo per modo di dire: la prossemica rispetta lo status sociale o la ricchezza dei partecipanti al rito, solo che qui i meno abbienti (forse i più appassionati o scatenati), come all’opera, stanno in alto. «Vedono meglio, vedono tutto», ha siglato l’accattivante Michelle Hunziker: sarà vero? Non lo so ma funziona.
I conduttori (epici)
Claudio Baglioni: l’Alieno, come vuole apparire anche nell’aspetto. Direttore artistico competente, ha riproposto e proposto le sue bellissime canzoni in duetti strepitosi: al suo fianco, Fiorello, Nannini, lo stesso Morandi, Pelù, Mannoia. Non si è sottratto alla decontestualizzazione delle più famose, fino all’auto-sbeffeggio tramite giornaliste grintose. Omaggi anche dissonanti, sperimentali: quello discusso, con Il Volo, a Sergio Endrigo, secondo me non troppo discutibile perché l’ha resuscitato; al compianto Luis Bacalov [deceduto lo scorso novembre, N.d.R.], a Lucio Battisti, a Ivano Fossati…
Scelta di ospiti stranieri piuttosto oculata (tra cui Sting, James Taylor): è il Festival della canzone italiana, senza complessi.
Michelle Hunziker: la fatina a orologeria. A lei si deve il ritmo serrato dello spettacolo, grande capacità di improvvisare, di interagire col pubblico e pure di scendere la ripida scalinata d’accesso al palco. Elegante e affidabile.
Pierfrancesco Favino: tutte le parti, dal comico al tragico, dal canto al ballo, sono state eccellenti. Come ogni vero attore proviene dal teatro, ed è capace di reinventarsi.
Tutti e tre dotati d’ironia (più cattiva quella di Baglioni) e autoironia, ovvero d’intelligenza
Le canzoni
Per lo più connotate da testi belli o, almeno, curati (merito del direttore artistico); eseguite dal vivo con bravura ed emozione. Hanno vinto i giovani, forse giustamente; ma anche i vecchi e i maturi hanno dato il meglio. Interessante la performance di Ornella Vanoni, da grande artista esperta, capace di trasformare qualche appannamento vocale in preziosismo interpretativo, per un’esecuzione giocata sul filo della sottrazione, sull’accennare anziché mostrare; il tutto, in contrasto spudorato con la maschera assunta fino all’estremo limite del turgore e del colore, che pure ha reso credibile la seduttiva prestazione di un altro /bel volto teatrale, come Alessandro Preziosi.
Drammaturgia
Per la prima volta si è potuta registrare una drammaturgia complessiva riconoscibile: la serata iniziale ha denotato una strategia d’aggancio, con gli show che sembravano sopravanzare le nuove canzoni; seconda e terza serata restituite ai cantanti, senza tuttavia trascurare ospiti e numeri; la quarta, invece, impreziosita dagli accoppiamenti, allo scopo di valorizzare ulteriormente ogni singola canzone; il finale con la Pausini risanata, o comunque capace di correre ogni rischio, perfino quello d’evadere dal palazzo in un bagno di gente. L’ultima serata sull’onda incalzante di tutte le canzoni – nessuna esclusa, ma si mantiene la suspense con la classifica d’ogni volta –, con l’aggiunta dell’evento sbalorditivo, il monologo di Koltès recitato da Favino con lacrime non sue, ma del personaggio, e di tutti.
Implicitamente coerente, sia nel riso sia nel pianto, con i messaggi veicolati da cantanti e canzoni intimamente o esplicitamente contro corrente: ricerca di un’alternativa all’esibizionismo, all’eccellenza, al riuscitismo (Lo Stato Sociale, Peppe Servillo ed Enzo Avitabile); resistenza nei confronti di ogni forma di violenza (i vincitori Ermal Meta–Fabrizio Moro); e, nel privato, tentativi di far parlare la coppia, di un dialogo perduto che si deve e si potrebbe riconquistare (Luca Barbarossa, bellissimo brano, con Anna Foglietta; ma anche Rubino).
Incipit-explicit: Un giorno qualunque cantata nella parte iniziale della prima e dell’ultima serata da tutti i campioni in gara e alla fine di ogni serata (tranne la quarta e la finale) dai conduttori.
Esito/epilogo con la canzone vincitrice che non era affatto scontata: parole raffinate; interpretazione perfettamente equilibrata fra i due talenti. Anche il testo di Lo Stato Sociale è parso piuttosto bello, per quanto non distante dal genere che ha vinto l’anno scorso. Esecuzione ovviamente spettacolare e voluta tale. Neppure Gabbani era innocuo, anche se forse gli interessati non se ne sono accorti più di tanto. Nella prova della band bolognese, la critica è più esplicita, diretta, in Gabbani più ermetica (da buon toscano del nord).
Anna Barsotti
Professore Ordinario di Drammaturgia e Spettacolo
presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere Università di Pisa