Un giorno qualcuno s’occuperà del teatro inquieto-comico espresso, negli ultimi decenni, in Toscana. Pare evidente, infatti, l’esistenza di artisti originali, indipendenti, ancorché non ignari dell’operato altrui, che si confrontano con la comicità, senza rinunciare a un’innegabile profondità teatrale: Sacchi di Sabbia, Omini, Sotterraneo, Andrea Kaemmerle e Riccardo Goretti, gente che ha in comune ben più d’una mera corregionalità, e che ci pare una composita e salutarissima risposta alla cristallizzazione d’un filone sorto negli anni Settanta coi Benigni, Benvenuti e i Giancattivi, poi atrofizzatosi nella declinazione commercialotta dei Pieraccioni e dei Panariello.
Sotterraneo (nel nome, il termine Teatro è caduto da un po’) è formazione gagliarda: offre scritture sceniche stratificate, a buccia di cipolla per dirla con Umberto Eco, che consenteno a diversi tipi di fruitore svariate possibilità di ricezione. Overload non fa eccezione: ha molto dei lavori passati (ricordiamo L’origine della specie, La repubblica dei bambini, War now!), segnando un ulteriore, felicissimo, scarto.
Overload significa sovraccarico: tutti siamo subissati da stimoli, richiami, suonerie, in un’ossessiva e continua perdita coatta di attenzione. Come pesci rossi, secondo un luogo più che comune. Da qui, un lavoro multiforme, d’ironia canagliesca e umorismo feroce, mascherati, in superficie, da gioco.
Un acquario, a sinistra, poco altro. E un uomo, in tenuta da tennis. Parla al pubblico: dice d’essere «scrittore, nordamericano, morto». Straniamento spiazzante: nessuno “riconosce” David Foster Wallace, pur negli ostentati segni iconici. Con un pirandellismo cabarettistico, l’attore specifica di non essere veramente chi dice d’essere, ma viene presto interrotto dagli altri interpreti nella presentazione delle “regole” d’una performance in cui la frattura (del discorso, dell’attenzione, del pensiero) sarà la cifra principale: a ogni disturbo, il pubblico potrà scegliere se “esplorare” i contenuti addizionali offerti dal diversivo, o continuare ad ascoltare Wallace. Che parlerà di depressione, dolore, del suo suicidio, in una lancinante elaborazione autobiografica, sommandovi l’insistito riferirsi all’elemento acqueo, reiterata marcatura di vari momenti del sempre franto discorso.
Spettacolo peculiarissimo, davvero doloroso e divertente (l’etimo richiama il vertere altrove, appunto), commistione di alto e basso, vero e falso, poesia e rumore: tra blob e Black Mirror, spietate metafore del nostro malandato mondo contemporaneo. Tutto è tarlato, corroso, destinato a un riso in apparenza lenitore, eppure mai liberatorio: il mandare, anzi andare, in vacca quale unica destinazione probabile, capolinea quasi obbligato.
Le interruzioni sono bizzarri trabochetti perpetrati dal coro formato dagli altri quattro performer; mai casuali o gratuiti, connotati di un’inquietudine da american grotesque che attinge al divismo sportivo (un improbabile Phelps nuota in platea; due tenniste mimano scambi) sino al (finto) finale con parodia del video di Smells Like A Teen Spirit, canzone manifesto di un’era (di cui Forster Wallace è considerato portavoce), lancio di ortaggi incluso, ovviamente verso la scena.
Sin qui, bene, ma, forse, non benissimo.
Il catartico trionfo vegetale non è, però, l’epilogo. I cinque attori inscenano un ordinario rientro a casa post-spettacolo: ognuno enuncia il proprio pensiero e poi si rivolge agli altri, gioco brechtiano comico e insolente. Il viaggio automobilistico, evocato dall’ingegnoso movimento corale, si carica via via di elementi inquietanti, concludendosi con uno schianto: l’auto, piombata nel fondo d’uno specchio d’acqua, consegna alla morte, narrata in prima persona, tutti, uno dopo l’altro.
E nello scendere allo sprofondo, pure della bellissima In The Pine (versione Nirvana, ovvio), s’inabissa tutto, compreso il sovraccarico delle nostre vite.
Applausi, applausi, applausi.