«Nessuno ascolta un cazzo». E potremmo fermarci qui.
Oppure no.
Difficile rendere bene conto della scrittura singolar-corale in cui la palpabile urgenza di Francesco Alberici (intravisto con Il cielo non è un fondale) trova solidissimo contrappunto in Daniele Turconi, Claudia Marsicano e Salvatore Aronica. Difficile parlarne, perché si tratta d’un lavoro sul e in (perenne) collasso, ove l’accanirsi sulla forma stessa della rappresentazione s’accompagna a una visione venefica dell’uomo e della nostra contemporaneità. Che, poi, pare la stessa di trent’anni fa, epoca in cui si svolgerebbe la vicenda (non) narrata. Condizionale d’obbligo: nell’antro verde chroma key che ci ferisce gli occhi, la storia è un continuo accavallarsi di piani, tra il qui-e-ora della performance, con gli attori a “recitar sé stessi”, e gli anni Ottanta in cui venne composta Tropicana, appunto, canzone tra le più celebri del periodo.
Sembra un caos: in realtà lo è, ma garantiamo che, nel vivo della performance, tutto è fluido, ingegnoso e pure divertente.
Turconi, esile, casual, entra. Sistema uno dei due microfoni sulla rispettiva asta, strimpella una chitarra. Buio. Eccoli: schierati in due file, occhiali scuri, avvolti e rivolti verso il fascio arancione, intensissimo, atomico, da destra. «Come sarà la fine?». Ognuno offre la propria ipotesi. Sono, e non sono, il Gruppo Italiano, formazione che, nel 1983, sforna un fortunatissimo tormentone, scivolando poi, qualche anno dopo, in quell’anonimato che pareva presagito, come d’obbligo, dal nome stesso.
Niente filologia né ricostruzione storica, non questo preme ad Alberici, bensì un articolato discorso sulle ragioni stesse di (provare a) fare arte, sulle sue condizioni produttive, sul mercato e le sue ciniche necessità. E sulla totale, disarmante assenza di ascolto vero, da parte degli spettatori. Che siamo noi, ma sono anche loro. Che siamo tutti.
Quasi quarant’anni a sculettar contenti sulle note d’un pezzo, ricordandone solo il ritornello che immortala gente inebetita da una pubblicità televisiva, mentre all’esterno si consuma un disastro nucleare: Tropicana diviene, così, figura del (nostro) tempo, particolare che rimanda a un’universale d’indifferenza, vacuità, pneumatica impossibilità di “valere” la vita che ci troviamo a menare. Finendone menati, mancando alla prova, un po’ come la scalcagnata formazione che, nel piano finzionale, s’affaccenda in scena.
Mirabile la parte in cui Turconi, strumentista leader, prova a contenere la portentosa vocalità di Marsicano, sequenza che chiunque abbia mai fatto prove non può che riconoscere: la divaricazione degli intenti dei due non può che sfociare in uno scontro, spassosissimo.
I sintagmi della vicenda recitata sono costantemente in bilico, frantumati dall’irruzione dell’ora: talvolta, nella forma d’un a parte, in cui il singolo racconta i motivi per cui si trova in scena. Quelli veri. Toccante Marsicano e i suoi dubbi sulla sensatezza della vita d’artista (frattanto è arrivato un Premio Ubu), buffo Aronica, out sider ruffianello, che presto s’aggiudica l’affetto della sala.
Ritroviamo, in questo lavoro lancinante, tracce d’un discorso comuni pure all’Overload di Sotterraneo e alla rarefazione drammaturgica dei già evocati Deflorian-Tagliarin. Ma rispetto a questi ultimi, avvitati e specchiati in un’eccepibile forma funzionante, ci pare emergere, qui, l’abrasione definitiva, l’urgenza bruciante e imbelvita, estesa allo stesso farsi teatro del discorso scenico, di quel Mondo cane di Turconi (come qui Frigoproduzioni) che ci folgorò tre anni fa (non fummo soli), ed è questo che vorremmo trovare, sempre, in scena.
Applausi convintissimi, per una volta concordi a quelli degli spettatori.