Il suo primo incontro con Mistero Buffo è avvenuto nel 1982, a Londra, quando Dario Fo e Franca Rame erano in trasferta sul Tamigi con il loro spettacolo di punta. Da quella data, Mario Pirovano resterà coi due per tutta la vita, decretandosi figlio d’arte acquisito (che non ce ne voglia Jacopo). Per i cinquant’anni dalla prima rappresentazione di Mistero Buffo, ci troviamo in una sala gremita presso il Teatro Laboratorio di Verona. L’occasione è ghiotta: l’erede di Dario Fo inscenerà proprio il cavallo di battaglia del maestro, nella città che ha consacrato una delle prime edizioni a stampa dell’opera, per la casa editrice Bertani (1973).
Sul nudo palco prende posto Pirovano, pantalone e maglia rigorosamente neri secondo una tradizione ormai consolidata: l’attore, dopo un preambolo sul proprio passato, l’incontro con Fo e la fortuna di Mistero Buffo, presenta la serata. L’opera prende spunto da alcune storie della vita di Gesù, tratte per lo più dai vangeli apocrifi e dai racconti popolari e Pirovano ne passerà in rassegna alcuni numeri – definiti giullarate dallo stesso Fo – tra i più noti e famosi del repertorio: il Miracolo di Lazzaro, la fame degli Zanni, Bonifacio VIII e il primo miracolo di Gesù bambino.
Non mancano i riferimenti all’attualità: dagli incidenti sul lavoro all’ultimo articolo di giornale; tutto si lega alla perfezione per creare un Mistero Buffo nuovo (si aggiunge al titolo il numero 50, a indicarne l’anniversario), che si distacca dalla versione del maestro, nonostante la sua presenza sia così forte in scena. Il pensiero va alla risata muta di Fo, quel sorriso che riusciva a bloccare tutto il volto, un riso grottesco che non produceva suono e che Pirovano realizza praticamente in maniera identica, al punto che ci viene da pensare che stia utilizzando una protesi dentale fatta sul calco della dentatura del modello. Si tratta dell’unica nota che stordisce, per uno spettacolo che, da un lato, prosegue sulla linea tracciata dall’autore originale (una forza fisica esplosiva e un utilizzo pertinente sia del dialetto che del grammelot) e, dall’altro, se ne distacca per una propria interpretazione.
Pirovano è i personaggi di cui parla, incorpora fisicamente ora lo Zanni ora Bonifacio VIII, si inserisce con il proprio lessico nelle tinte della vulgata, intercalando molti più gesti e movimenti rispetto a quelli misurati e calibrati di Fo (come se quest’ultimo puntasse a una maggiore economia del gesto, in favore di un distacco critico volto al fine didascalico del numero).
È come se conoscesse davvero quei caratteri, presi dal popolo, come se li avesse studiati da vicino, e questo può spiegarsi grazie all’assimilazione diretta che può aver fatto quando, da adolescente, lavorava come garzone di bottega.
Cimentarsi con Fo è impresa ardua, ma se ne apprezzano gli sforzi nel momento in cui se ne realizza una nuova versione. Quello che ci sarebbe piaciuto vedere, ma ahimè non ce ne sarà più l’occasione, è l’introduzione da parte di Fo alle giullarate con il suo stile divulgativo e informativo, seguito dall’interpretazione dei personaggi da parte di Pirovano, così più vicino agli Zanni, a Bonifacio VIII e a tutto quello stuolo di caratteri creati dall’attautore e cheil figlio d’arte riesce a indossare con estrema e distinta efficacia.
E il nostro Arlecchino saltella di gioia, soprattutto quando si parla di Zanni che sanno ben fare il loro mestiere.