Serata suggestiva a Torre del Lago, con una grande luna ambrata a baluginare nel cielo che si fa scuro. Penultimo appuntamento della stagione, ultima recita per Madama Butterfly: tutti i presupposti per lasciarsi incantare dalla vicenda della piccola Cio Cio San; eppure qualcosa non ci ha convinto.
Avremmo creduto di emozionarci profondamente – esatto, chi tenti di scrivere di teatro non sempre ha il cuore gelido – ma l’allestimento a cui abbiamo assistito, per quanto esteticamente apprezzabile, non si è spinto a toccare la volubile emotività di questa arlecchina. Ebbene, bando ai sentimentalismi, passiamo a descrivere l’opera che ha messo in dubbio la nostra abilità nel discernere il bello dall’emozionante.
La mirabile coerenza registica e scenografica di Renzo Giacchieri risulta immediatamente evidente. Movimenti misurati, dolcezza delle forme, una drammatica lentezza nello svolgimento dell’azione scenica: il mondo giapponese, opposto alla volgare e forse più superficiale realtà americana.
Nel primo atto, la scena scarna fa presumere una Butterfly estremamente statica, in cui gli unici personaggi a dare movimento a quella che pare una fotografia sono i soldati americani che ostentano un esasperato patriottismo: lo stesso Puccini evidenzia questo aspetto, facendo accennare all’orchestra l’inno americano, e ponendo così un muro tra culture completamente differenti.
Forse i due schermi a lato del palco hanno dato una pennellata prosaica a un’operazione altrimenti elegiaca, ma siamo arlecchini, i contrasti ci affascinano e ci divertono, e quei due display (discutibile la nitidezza dell’immagine) non hanno potuto che ricordarci i mega-schermi nei concerti rock, quale sublime opposizione.
Il secondo atto presenta una scenografia più elaborata e una regia più flessibile, pur senza allontanarsi dalla sottile eleganza nipponica, con un fondale su cui si allungano rami di ciliegio, a metà tra un paesaggio e una pittura tradizionale giapponese.
È forse doveroso sottolineare che in questa versione si è preferito considerare Butterfly quale opera in due atti piuttosto che in tre, di cui il seco ndo diviso in due parti, più fedeli al volere del compositore.
Un bel dì vedremo… ed ecco gli applausi per Anna Maria Stella Pansini, e il tessuto lirico per qualche istante si fa più vivido nei propri colori dapprima così opachi. Encomi sinceri anche per Raffaele Raffio, nel ruolo di Sharpless.
Il tempo passa, il bel bambino biondo appare nel fulgore dei suoi tre anni di vita, e non possiamo trattenere un sorriso notando la sorprendente somiglianza con il piccolo Anakin di un’opera meno lirica di quella pucciniana… Abbiate pietà, non riusciamo a mantenere un atteggiamento serio nemmeno in una serata dedicata al melodramma.
Molto d’effetto alcune soluzioni registiche, nella loro apprezzabilissima semplicità: il susseguirsi delle stagioni su pannelli lignei che, improvvisamente, portano all’agognata primavera, la dolcezza con cui la bella compie l’atto estremo, sostenuta da una figura in nero, come dalla propria sofferente coscienza.
Abbiamo un poco sofferto per la sottigliezza di alcune voci, talvolta traballanti e in alcuni casi quasi perdute, velate da un’orchestra che pure raramente si avventura fino o oltre il forte.
Non possiamo criticare l’aspetto musicale, ma anche i profani hanno colto alcune debolezze nell’interpretazione di Mirko Matarazzo, benché si debba ricordare (a discolpa dei cantanti) che in quel tiepido sabato sera in scena vi era il secondo cast (addirittura terzo per i due protagonisti).