Mettiamolo subito in chiaro, per non sembrare troppo ingenui: la formula strappalacrime di Armando Punzo la conosciamo. Conosciamo i suoi trucchi, sempre gli stessi, e il suo stile carico, sovrabbondante e amante del frammento. Eppure non siamo immuni al suo fascino, ci lasciamo trasportare nel suo mondo caotico e non riusciamo a sottrarci al suo gioco.
Entriamo nel teatro per assistere a Santo Genet commediante e martire e siamo ancora vigili: non bastano gli attori che già si aggirano nel foyer né le due file di marinai statuari che accompagnano l’ingresso in sala. Siamo più furbi di così. La platea è in penombra, piena di fumo, e la musica onirica sembra un richiamo di sirene. No, siamo ancora forti. Inizia lo spettacolo e, gradualmente, il nostro cinismo evapora in quel fumo, totalmente alla mercé del sogno. Punzo lo sa, ci guarda con la sua sensuale ambiguità femminea, e ne approfitta. Poco dopo la metà dello spettacolo non ha ritegno e parte il colpo basso: inizia un valzer, gli attori-detenuti e i marinai scendono in platea e, in pochi secondi, in ogni spazio praticabile c’è qualcuno che danza. Come si fa a restare indifferenti? Noi ci abbiamo provato, eravamo anche preparati, eppure in quel momento non riusciamo a non abbandonarci in quel turbine di emozioni perfettamente orchestrato. Resta solo, poco dopo, la frustrazione nel caso in cui nessuno ci inviti a ballare.
Punzo riesce a gestire bene la delicata evasione dal contesto scenico del carcere a quello più tradizionale del Teatro Verdi di Pisa. Se, in carcere, lo spazio principale era il corridoio di velluto rosso – stretto, soffocante, quasi uterino – su cui si aprivano le camere del bordello in cui gli spettatori si muovevano sparsi, qui tutto si svolge sul palcoscenico e nel corridoio della platea, con gli spettatori comodamente seduti nelle proprie poltroncine. Il regista della Compagnia della Fortezza trova alcuni espedienti originali per rendere quasi intatto il carattere avvolgente del lavoro. Il più evidente è il collegamento con la platea, attraverso una scala bianca, larga e centrale: ben lontana da quelle anonime scalette che vengono usate sempre più spesso per una banale – quanto inutile – rottura della quarta parete. Lo spazio dell’azione inizia dal foyer e gli spettatori ne sono continuamente immersi. Un altro stratagemma, assai più raffinato, riesce a sfumare il confine dell’arco scenico: la luce.
La scrittura scenica, infatti, controlla pure l’illuminazione di sala, resa uniforme a quella sul palco. Ne nascono giochi e combinazioni interessanti e, con questo dettaglio, Punzo fa ciò che gli riesce meglio: non rivoluzionare un linguaggio, ma inventarne uno proprio, di cui è lui stesso a dettare le regole.
In platea, nella replica domenicale, è seduto il ministro della Giustizia. Anche la sua presenza aiuta a ricreare l’atmosfera originaria: gli uomini della scorta, attenti a scrutare il pubblico, non fanno sentire la mancanza dei secondini del carcere volterrano. Povero ministro Orlando! Chissà come dev’essersi annoiato, vivendo quello spettacolo come una recita scolastica… Dopo, in un colloquio con la compagnia, parla di «esperienza da esportare». Peccato che non abbia capito un tratto fondamentale dell’opera di Punzo e del suo lavoro in carcere: il suo teatro è bello per sé e in sé, non si nasconde dietro l’etichetta dell’impegno civile – per quanto i meriti sul piano del recupero siano innegabili e importanti. Il suo non è un tampone sull’inefficenza del sistema penitenziario: è teatro.